19 febbraio 2010.
Buio. Galleria di Tornimparte, nebbia e neve, qui è un paesaggio normale.
Trattengo il respiro, le parole, tra poco sarò in un territorio di guerra.
Tutto quello che “non c’è” è la normalità. Negli occhi delle persone, nei modi, negli sguardi. Percorriamo la strada fino al nuovo gruppo di case chiamato “Coppito Due”, incontro tetti crollati, muri inesistenti, piazzali, campi, spazi vuoti che fino a qualche tempo fa erano tendopoli.
E tanti camper, roulotte, casette di legno, segni di paura, instabilità, voglia di fuggire.
Le transenne, i nastri sulle porte delle case.
Crepe, enormi, su palazzi troppo nuovi.
Anche le mie lacrime si vergognano ad uscire, come se il dolore provato dagli altri fosse sufficiente anche per me. Tento di respirare più profondamente, per cogliere ciò che sto provando.
Gli occhi e il cuore si parlano. Io sono povera di reazioni. Perchè è tutto così strano, ciò che per me è scontato qui non lo è più. Intanto si sale verso Coppito, comincio a riconoscere qualcosa. L’asilo nido di mia nipote, quello nuovo, è come le Lego. Pare messo su con plastica e qualche vite. Protegge la sua vita ogni giorno, più di qualsiasi muro, messo su a suon di finto cemento.
L’ospedale, l’università. Le strade completamente distrutte dai mezzi che tutti i giorni tentano di ricostruire le case e di dare di nuovo un senso a questa città. Cartelli stradali, indicazioni, tutto improvvisato, precario, provvisorio.
Coppito. Intravedo la casa di via S. Bartolomeo e mi si stringe il cuore. Là dentro c’è ancora molta “vita” di Denise e Federico, ci sono i primi passi di mia nipote. Ci sono ancora le tracce della loro fretta del 6 aprile 2009, ancora la distruzione della scossa, crepe, finestre che non si chiudono più, c’è la polvere, l’umidità che sconfigge anche la legna morta da secoli.
Vedo i ricordi di chi non li ha più.
Le case nuove sono ancora molto approssimative, il cielo grigio certo non aiuta. Non ci sono nomi sui campanelli, sulle cassette della posta, come se nessuno volesse più dire “Ci sono” per poi doversi perdere di nuovo. I disastri così distruggono le identità ma creano il collettivo. I ragazzini sono già tutti amici, i vicini di casa mi salutano, anche se non mi hanno mai visto. Funziona solo un ascensore verso quei parcheggi fangosi dove più che altro si notano i pilastri ammortizzatori, per attutire l’effetto di nuove possibili scosse. E intorno c’è solo fango, la neve del Gran Sasso in lontananza e L’Aquila. Con le case chiuse, sprangate e le luci spente. Fa impressione.
Tutto gira intorno ai centri commerciali, che sono due. I negozi che hanno riaperto, provenienti dal centro, si sono distribuiti in qualche spazio dei due centri oppure sono per le strade, in piccoli chalet di legno, nei container. Passando, si vedono schiere di casettine, di due mura tirate su con la voglia di ricominciare. La “Farmacia del duomo” adesso è in un container, tenuto su da due mattoni per lato, in un parcheggio di un altro piccolo centro commerciale. Un negozio di vestiti da sposa in uno chalet. E poi impalcature, ancora transenne, strade chiuse, travi di legno a sorreggere una finestra, una porta, una muratura.
Tornando dalla pizzeria vedo le macerie di ciò che era una casa: mobili, porte, un auto. Tutto sotto le macerie. Poi ancora una chiesa senza una parete, senza più un senso, un’anima, un sostegno originale. Ed è ancora così. Ridotta come uno scheletro aperto alle intemperie.
Solo il buio mi ha impedito di vedere oltre. La curiosità, anche un po’ macabra, mi spinge a voler documentare almeno in parte quello che è successo. Perchè le parole non bastano, il senso dei miei occhi, distorto dall’amore per i miei cari, è troppo parziale, e vorrei provare ad andare oltre. Oltre quei 27 secondi di crepe nei muri, crepe nelle nostre vite, oltre al cinismo della rinascita, per poter capire ancora più a fondo il senso della mia vita e di amarla ancora di più.
Ogni volta che percorro la A24 non posso non pensare a quando, mentre io ero ferma in una corsia di emergenza con l’autobus tra Roma e L’Aquila, alle 15 del 14 luglio 2007, con 40° all’ombra, nasceva mia nipote. Io con l’autobus che quasi andava a fuoco e mia sorella che partoriva quella meraviglia che è mia nipote Letizia. Di certo, imprecavamo tutte e due. Ogni volta che vado all’Aquila ci penso, sorrido, non potrei fare altrimenti. E potrei raccontarlo altre mille volte. Come altre mille, diecimila volte, ascolterei il racconto della notte del terremoto dalla voce di chi lo ha vissuto. Da chi ha la fortuna di raccontarlo. Deny e Fede dicono che chiunque sia sopravvissuto non può parlare d’altro, è così.
Oggi siamo andati in centro, abbiamo camminato tra le vie che un tempo erano vive, piene di voci. Tutte le persone che abbiamo incontrato, di cui sentivamo frammenti di discorsi, parlavano del terremoto, di cosa hanno fatto durante la scossa, di come sono scappati, di dove stanno adesso. Perchè nelle vecchie case non ci sta più nessuno, tapparelle, cancelli chiusi, sono il panorama più frequente qui.
Si cammina tra le macerie. Cerco di “assaporare” cosa possa significare tutta questa distruzione ma non riesco, ovviamente, a coglierne il turbamento che ha lasciato in ogni persona. I calcinacci, le impalcature di legno e tubi innocenti coprono le voci dei palazzi distrutti, le vetrine dei negozi sono vuote, i manifesti del cinema sono quelli di quasi un anno fa.
Per quante foto io possa fare, non sarà mai abbastanza. Mio cognato dice che c’è una cosa che non si può fotografare: il rumore del terremoto. Mia sorella annuisce, in silenzio.
Un boato che arriva da sotto la terra e sale, sale d’intensità e pare che ti risucchi in un vortice, una sensazione di implosione, di crollo di tutto ciò che hai intorno, le pareti, le strutture, il rumore delle mura dei palazzi che sbattono tra loro, stridono, si spaccano.
Quel rumore dal cuore del sottosuolo che da lieve diventa assordante fino a non farti sentire chi hai accanto, un grido di aiuto, una voce di disperazione. Il terremoto. Qualcosa che rompe le sicurezze e le getta tutte in aria, senza che tu possa decidere come e cosa fare. Se non sperare che quel suono cupo, sordo, senza scampo e senza anima, la smetta di svegliarti ogni notte.
Mio cognato dice che il terremoto è come un serpente, in effetti è ciò che si coglie vedendo con quale “criterio” ha deciso di distruggere. Sinuoso, da sotto, letale, si è preso chi era sopra il suo percorso. Case, a pochi metri l’una dall’altra, completamente diverse: devastate, senza più pareti, scale, finestre, con i garage appiattiti, oppure senza un graffio.
Cemento armato fatto con la sabbia che si sgretola, pietre di ruderi disabitate come una beffa sono ancora in piedi. Alcune vie sono dei cimiteri. Palazzi interi crollati, strutture che sembrano bombardate, la casa dello studente, che non c’è più. Rimangono le foto dei ragazzi morti, rimangono i palazzi accanto, con le porte interne che diventano esterne, rimangono i vigili del fuoco a lavorare, sempre, anche di domenica, per mettere in sicurezza ciò che si può.
Il lavoro qui è praticamente infinito. In centro c’è solo un bar aperto, il resto è tutto chiuso, inaccessibile, nemmeno con lo sguardo si può vedere dentro certi vicoli. Le chiese distrutte, la storia, l’arte sgretolata e lavata via dalle piogge, la vita e la quotidianità finite.
Le strade sono pietose, tutto ciò che è anche solo poco fuori dall’indispensabile diventa irrealizzabile, rimandato. Si fa solo ciò che si deve fare. Non so se c’è una via per risolvere le cose meglio di così o per farlo nel minor tempo possibile ma quello che so è che L’Aquila non volava prima del 6 aprile 2009 e non vola neanche adesso. Le macerie sono depositate negli occhi delle persone, ognuno ha trovato la sua via per andare avanti, per cercare di dimenticare, ciò che sento dentro di me non somiglia all’ottimismo.
Vincerà l’indifferenza che, dopo qualche tempo, coprirà la coscienza sporca di chi ha costruito case con la sabbia? Vincerà la certezza della rinascita di chi ha sofferto? Questa tragedia farà risollevare anche chi pensa di non farcela?
Ho visto la casa di mia sorella con le crepe, con i mobili in disordine, i libri caduti dalle mensole, i carillon di Letizia impolverati. Forse io, non ce l’avrei fatta a rialzarmi. Ma le persone sono più forti di ogni muro. La dignità ferita di chi ha perso tutto, TUTTO, farà da calce alle prossime costruzioni, c’è chi ha voglia di mettere un punto, voltare pagina, riscrivere la propria storia. Senza dimenticare, ma trasformando la morte in una base di ricostruzione indistruttibile.
Buio. Galleria di Tornimparte, nebbia e neve, qui è un paesaggio normale.
Trattengo il respiro, le parole, tra poco sarò in un territorio di guerra.
Tutto quello che “non c’è” è la normalità. Negli occhi delle persone, nei modi, negli sguardi. Percorriamo la strada fino al nuovo gruppo di case chiamato “Coppito Due”, incontro tetti crollati, muri inesistenti, piazzali, campi, spazi vuoti che fino a qualche tempo fa erano tendopoli.
E tanti camper, roulotte, casette di legno, segni di paura, instabilità, voglia di fuggire.
Le transenne, i nastri sulle porte delle case.
Crepe, enormi, su palazzi troppo nuovi.
Anche le mie lacrime si vergognano ad uscire, come se il dolore provato dagli altri fosse sufficiente anche per me. Tento di respirare più profondamente, per cogliere ciò che sto provando.
Gli occhi e il cuore si parlano. Io sono povera di reazioni. Perchè è tutto così strano, ciò che per me è scontato qui non lo è più. Intanto si sale verso Coppito, comincio a riconoscere qualcosa. L’asilo nido di mia nipote, quello nuovo, è come le Lego. Pare messo su con plastica e qualche vite. Protegge la sua vita ogni giorno, più di qualsiasi muro, messo su a suon di finto cemento.
L’ospedale, l’università. Le strade completamente distrutte dai mezzi che tutti i giorni tentano di ricostruire le case e di dare di nuovo un senso a questa città. Cartelli stradali, indicazioni, tutto improvvisato, precario, provvisorio.
Coppito. Intravedo la casa di via S. Bartolomeo e mi si stringe il cuore. Là dentro c’è ancora molta “vita” di Denise e Federico, ci sono i primi passi di mia nipote. Ci sono ancora le tracce della loro fretta del 6 aprile 2009, ancora la distruzione della scossa, crepe, finestre che non si chiudono più, c’è la polvere, l’umidità che sconfigge anche la legna morta da secoli.
Vedo i ricordi di chi non li ha più.
Le case nuove sono ancora molto approssimative, il cielo grigio certo non aiuta. Non ci sono nomi sui campanelli, sulle cassette della posta, come se nessuno volesse più dire “Ci sono” per poi doversi perdere di nuovo. I disastri così distruggono le identità ma creano il collettivo. I ragazzini sono già tutti amici, i vicini di casa mi salutano, anche se non mi hanno mai visto. Funziona solo un ascensore verso quei parcheggi fangosi dove più che altro si notano i pilastri ammortizzatori, per attutire l’effetto di nuove possibili scosse. E intorno c’è solo fango, la neve del Gran Sasso in lontananza e L’Aquila. Con le case chiuse, sprangate e le luci spente. Fa impressione.
Tutto gira intorno ai centri commerciali, che sono due. I negozi che hanno riaperto, provenienti dal centro, si sono distribuiti in qualche spazio dei due centri oppure sono per le strade, in piccoli chalet di legno, nei container. Passando, si vedono schiere di casettine, di due mura tirate su con la voglia di ricominciare. La “Farmacia del duomo” adesso è in un container, tenuto su da due mattoni per lato, in un parcheggio di un altro piccolo centro commerciale. Un negozio di vestiti da sposa in uno chalet. E poi impalcature, ancora transenne, strade chiuse, travi di legno a sorreggere una finestra, una porta, una muratura.
Tornando dalla pizzeria vedo le macerie di ciò che era una casa: mobili, porte, un auto. Tutto sotto le macerie. Poi ancora una chiesa senza una parete, senza più un senso, un’anima, un sostegno originale. Ed è ancora così. Ridotta come uno scheletro aperto alle intemperie.
Solo il buio mi ha impedito di vedere oltre. La curiosità, anche un po’ macabra, mi spinge a voler documentare almeno in parte quello che è successo. Perchè le parole non bastano, il senso dei miei occhi, distorto dall’amore per i miei cari, è troppo parziale, e vorrei provare ad andare oltre. Oltre quei 27 secondi di crepe nei muri, crepe nelle nostre vite, oltre al cinismo della rinascita, per poter capire ancora più a fondo il senso della mia vita e di amarla ancora di più.
Ogni volta che percorro la A24 non posso non pensare a quando, mentre io ero ferma in una corsia di emergenza con l’autobus tra Roma e L’Aquila, alle 15 del 14 luglio 2007, con 40° all’ombra, nasceva mia nipote. Io con l’autobus che quasi andava a fuoco e mia sorella che partoriva quella meraviglia che è mia nipote Letizia. Di certo, imprecavamo tutte e due. Ogni volta che vado all’Aquila ci penso, sorrido, non potrei fare altrimenti. E potrei raccontarlo altre mille volte. Come altre mille, diecimila volte, ascolterei il racconto della notte del terremoto dalla voce di chi lo ha vissuto. Da chi ha la fortuna di raccontarlo. Deny e Fede dicono che chiunque sia sopravvissuto non può parlare d’altro, è così.
Oggi siamo andati in centro, abbiamo camminato tra le vie che un tempo erano vive, piene di voci. Tutte le persone che abbiamo incontrato, di cui sentivamo frammenti di discorsi, parlavano del terremoto, di cosa hanno fatto durante la scossa, di come sono scappati, di dove stanno adesso. Perchè nelle vecchie case non ci sta più nessuno, tapparelle, cancelli chiusi, sono il panorama più frequente qui.
Si cammina tra le macerie. Cerco di “assaporare” cosa possa significare tutta questa distruzione ma non riesco, ovviamente, a coglierne il turbamento che ha lasciato in ogni persona. I calcinacci, le impalcature di legno e tubi innocenti coprono le voci dei palazzi distrutti, le vetrine dei negozi sono vuote, i manifesti del cinema sono quelli di quasi un anno fa.
Per quante foto io possa fare, non sarà mai abbastanza. Mio cognato dice che c’è una cosa che non si può fotografare: il rumore del terremoto. Mia sorella annuisce, in silenzio.
Un boato che arriva da sotto la terra e sale, sale d’intensità e pare che ti risucchi in un vortice, una sensazione di implosione, di crollo di tutto ciò che hai intorno, le pareti, le strutture, il rumore delle mura dei palazzi che sbattono tra loro, stridono, si spaccano.
Quel rumore dal cuore del sottosuolo che da lieve diventa assordante fino a non farti sentire chi hai accanto, un grido di aiuto, una voce di disperazione. Il terremoto. Qualcosa che rompe le sicurezze e le getta tutte in aria, senza che tu possa decidere come e cosa fare. Se non sperare che quel suono cupo, sordo, senza scampo e senza anima, la smetta di svegliarti ogni notte.
Mio cognato dice che il terremoto è come un serpente, in effetti è ciò che si coglie vedendo con quale “criterio” ha deciso di distruggere. Sinuoso, da sotto, letale, si è preso chi era sopra il suo percorso. Case, a pochi metri l’una dall’altra, completamente diverse: devastate, senza più pareti, scale, finestre, con i garage appiattiti, oppure senza un graffio.
Cemento armato fatto con la sabbia che si sgretola, pietre di ruderi disabitate come una beffa sono ancora in piedi. Alcune vie sono dei cimiteri. Palazzi interi crollati, strutture che sembrano bombardate, la casa dello studente, che non c’è più. Rimangono le foto dei ragazzi morti, rimangono i palazzi accanto, con le porte interne che diventano esterne, rimangono i vigili del fuoco a lavorare, sempre, anche di domenica, per mettere in sicurezza ciò che si può.
Il lavoro qui è praticamente infinito. In centro c’è solo un bar aperto, il resto è tutto chiuso, inaccessibile, nemmeno con lo sguardo si può vedere dentro certi vicoli. Le chiese distrutte, la storia, l’arte sgretolata e lavata via dalle piogge, la vita e la quotidianità finite.
Le strade sono pietose, tutto ciò che è anche solo poco fuori dall’indispensabile diventa irrealizzabile, rimandato. Si fa solo ciò che si deve fare. Non so se c’è una via per risolvere le cose meglio di così o per farlo nel minor tempo possibile ma quello che so è che L’Aquila non volava prima del 6 aprile 2009 e non vola neanche adesso. Le macerie sono depositate negli occhi delle persone, ognuno ha trovato la sua via per andare avanti, per cercare di dimenticare, ciò che sento dentro di me non somiglia all’ottimismo.
Vincerà l’indifferenza che, dopo qualche tempo, coprirà la coscienza sporca di chi ha costruito case con la sabbia? Vincerà la certezza della rinascita di chi ha sofferto? Questa tragedia farà risollevare anche chi pensa di non farcela?
Ho visto la casa di mia sorella con le crepe, con i mobili in disordine, i libri caduti dalle mensole, i carillon di Letizia impolverati. Forse io, non ce l’avrei fatta a rialzarmi. Ma le persone sono più forti di ogni muro. La dignità ferita di chi ha perso tutto, TUTTO, farà da calce alle prossime costruzioni, c’è chi ha voglia di mettere un punto, voltare pagina, riscrivere la propria storia. Senza dimenticare, ma trasformando la morte in una base di ricostruzione indistruttibile.