that’s all folks

standard 22 aprile 2010 4 responses

stasera vi racconto una storia.
una storia cominciata sei anni fa.
che poi quasi due anni fa è cambiata.
una storia di due amici. che diventano amanti. che diventano complici.
una storia che non ha mai visto la notte, vissuta di giorno, vissuta con le porte chiuse, la bocca chiusa, il cuore chiuso.
una storia senza storia e senza futuro, di quelle che non hanno spazio e definizioni, senza obblighi e con mille parole non dette.
una storia di tormento e di logoramenti.
ma una storia piena d’amore. amore per se stessi, amore egoista, amore non costruito su “ti amo” ma sull’affetto, la stima e l’intimità.
una storia nostra, solo nostra, unica, inspiegabile.
un’amicizia con il valore aggiunto.
stasera vi racconto questa storia.
ve la racconto perchè è finita e vorrei anche io rendermene realmente conto.
pare totalmente surreale.
le mie lacrime non hanno più sapore, sono insipide e leggere. ogni cosa perde i limiti e la forma, tutto scompare.
una storia come questa non dovrebbe avere niente di scontato. invece tutto lo diventa.
le telefonate, i messaggi, uno sguardo. tutto pare ovvio, tutto pensi che ci sarà sempre.
una storia governata dalla paura, decisa dalla paura di finire chissà dove, uccisa dalla volontà di non rischiare. non rischiare a vivere, a provare emozioni, troppo troppo difficile rischiare.
una storia dove tutti e due abbiamo dato tanto, abbiamo vissuto e visto tanto, che mi ha fatto piangere, disperare. una storia per la quale abbiamo messo in gioco molto, senza rendercene conto. e ora non ce l’abbiamo più.
i rancori e la rabbia, gli occhi accecati dal sole dell’orgoglio, iniettati di sangue, di collera e di strascichi sempre troppo lunghi, pestati troppe volte.
una storia di carezze e di assenze, di presenze e di nessuna sorpresa.
indispensabile come l’aria, sapere di avere qualcosa di speciale da tenere solo per se.
qualcosa di indistruttibile.
ma che ti si sgretola tra le mani ancora prima di accorgertene. forse è per questo che amiamo la vita, per l’irripetibilità delle cose che accadono, per la loro sfuggevolezza e per quello che lasciano dopo, per la sensazione che rimane, tra i polpastrelli delle dita. un nastro che scorre, che assume le sue sfumature ma che comunque scorre. la nostra arrendevolezza lo fa scorrere più velocemente, la tenacia lo rallenta, ma lui comunque scorre.
questa irripetibilità è ciò che mi da la forza, ora, di sorridere. il pensiero che mai nessuno potrà rubarci ciò che abbiamo vissuto insieme, qualsiasi cosa sia.
una storia lunga molto tempo. che inizia con un bacio. che finisce con un abbraccio. stasera è finita così. domani non voglio sapere quello che sarà senza di lui. o con lui ma diversamente. non riesco a pensarci. allora guardo ad ora, che sono le 1.11 di notte, del 23 aprile 2010.
chiudo gli occhi. il mio cuore batte forte. le lacrime scendono senza sosta. la mia pelle è rossa e irritata. le mie mani corrono sulla tastiera per raccontare una storia che tutti conoscono. il domani senza di lui mi pare impossibile. a volte non si descrive tutto con una parola, perchè io non sono mai stata innamorata di lui. è che vivo tutto al massimo, mettendoci tutta me stessa, con l’entusiasmo di una bambina. ma l’amore è altro.
queste mie parole sono frutto di un sentimento che non si traduce in nessun modo. sono parole per ricordare di tutte le volte che abbiamo fatto l’amore,
di tutte le volte che ci siamo baciati. di tutte le volte che abbiamo litigato o sorriso insieme.
stasera vi ho raccontato una storia.
io e lui insieme, amici e complici. mi manca tantissimo, mi mancherà tantissimo.

una canzone.

standard 18 aprile 2010 1 response

una bellissima canzone che mi racconta per quello che sento stasera.

Il sottoscritto – Baustelle.

Di battaglie perse ben lontano dall’artiglieria
di proiettili sparati al cielo
di parole scritte ad un destinatario andato via
prima di averle ricevute

di avventati duelli
e di future città
di ali di cera sciolte al sole
di bugie per amore
amori senza pietà
e di mulini a vento

può cantarti il sottoscritto
vorrei darti tutto, amarti
meglio poter vivere altre vite insieme a te
potrai mai scusarmi?

di rapine in banca che non hanno avuto luogo mai
di quei non riusciti a farla franca
degli appuntamenti dati a tarda sera nei caffè
quelli che hai lasciato abbandonati

di perduti capelli
e di future realtà
di bei ricordi andati a male
di bugie per amore
amori senza pietà
e di occasioni al vento

può cantarti il sottoscritto
vorrei darti tutto, amarti
meglio poter vivere altre vite insieme a te
potrai mai scusarmi?
perchè io ti canto questo ed altro

vorrei darti tutto amarti meglio
poter vivere altre vite insieme a te
solo tu puoi perdonarmi
io ti canto questo ed altro…

http://www.youtube.com/watch?v=LTlANe8sNhk

vizio.

standard 18 aprile 2010 3 responses

il sole batte sui tetti di fronte a casa mia.
è una domenica splendente di luce.
il mio cuore è ferito, come spesso accade, perchè mi preservo da tutto ma mai abbastanza.
vorrei ascoltare una musica così forte che mi illuda di non sentire per un attimo la delusione, che mi nasconda le voci che sussurrano, sempre più forte, nelle mie orecchie. sono parole di stanchezza, di logoramento.
mi chiedo il perchè ma non ho mai una risposta convincente. non ce l’ha mai nessuno. non sono mai abbastanza le cose che posso dire per giustificare questo vizio. come chi fuma e sa che gli fa male. non ho vizi di nessun tipo ed è forse per questo che non riesco ad uscire da questo. questa scatola è chiusa e nessuno mi apre e mi porta via, io da sola non ce la faccio a liberarmi, continuo a dimenarmi ma non è abbastanza. questa stanchezza non raggiunge mai l’insufficienza, rimane sempre in equilibrio, e mi tormenta. ciò che fa sopravvivere tutto questo è la paura.
la paura muove il mondo, fa fare le cose sbagliate, acceca gli occhi e fa essere egoisti.
io ho paura di perdere un pò di me, perdendo tutto questo, un “tutto questo” di cui non posso mai parlare, perchè non si può spiegare, perchè non si può, perchè nemmeno io lo capisco e lo so gestire. e questo egoismo ci cancella ogni giorno di più, lo strascico dei nostri rancori è pesante e prima o poi chiederà il conto.
non voglio sapere come sarà il mio futuro, non ho la presunzione di prevedere niente.
so come è stato il mio ieri, dove la sofferenza è sempre passata in secondo piano di fronte ad un sorriso.
so come è il mio oggi. il questo giorno di sole. è un oggi in cui le lacrime sono aratri che solcano il mio viso, è un oggi in cui mi sento umiliata, delusa, debole, invisibile.
è un oggi in cui so che cederò al mio ieri e forse è anche questo che mi fa stare così. la mia arrendevolezza di fronte alla paura, la mia percezione delle emozioni, sempre troppo esagerata. non ho bisogno di questo, non mi merito questo.
non so perchè, allora, in questo oggi di sole, ne sono ancora così dipendente.

L’attimo fuggente.

standard 12 aprile 2010 7 responses

Mi sento come se fossi tornata a quando avevo 15 anni, che quando uscivo con un ragazzo non sapevo come fare, come comportarmi, cosa potesse essere giusto o meno.
L’insicurezza portata da tutto questo percorso di “singletudine” è pazzesca. Vorrei qualcuno che mi prendesse, mi dicesse “Facciamo così”, come fossi una marionetta in balia del mio burattinaio. Vorrei non essere troppo esagerata o troppo distaccata. Vorrei essere protagonista di una storia normale, di un amore normale, di un sentimento puro, pulito, senza sospiri di disagio e di compromessi mal celati. Vorrei uno sguardo su di me che esprima tutto, vorrei sentire il calore di un’altra pelle che mi trasmette ciò che sento io. Vorrei sentire una sintonia di intenti, di bisogni e di desideri, senza per forza essere uguali in tutto. Vorrei che la semplicità di un sorriso riscaldi la mia giornata e che guardarmi allo specchio non diventi a volte così pesante, vorrei non dover scontare delle colpe non mie e avere accanto qualcuno che si è scordato il proprio passato, che vivesse il proprio presente come una vita nuova.
Vorrei essere spensierata, libera da tutti i questi limiti che mi impediscono di essere totalmente come sono, sempre viziata dalla paura di sbagliare.
Vorrei che non esistesse il “troppo” e il “poco”, vorrei poter dare tutto quello che sento. Ci sarà qualcuno che avrà la buona volontà di prenderlo?
Non sono solo questo, ma sono anche questo. Dietro tutta questa insicurezza ci sono anche sorrisi e convinzioni più forti di qualsiasi solitudine. Ho solo voglia che qualcuno li trovi, li apprezzi e li ami.
CARPE DIEM. Voglio vivermeli tutti gli attimi, senza perderlo nemmeno uno.

stamani mi ha svegliato un tuono.

standard 11 aprile 2010 Leave a response

stamani mi ha svegliato un tuono e su per giù ho i capelli come se mi avesse preso un fulmine. dopo questi eventi atmosferici posso dire che la giornata non è iniziata proprio come avevo previsto…ma questo si sa, non accade quasi mai.
Con le previsioni sul mio umore sono quasi peggio del compianto Maurizio Mosca con il suo pendolino per le partite, non ci azzecco mai. Adesso mi ascolterò un pò di musica superipermega(stratanto) deprimente e farò una lavatrice, così da lavare via questo colore grigio dal cielo della mia stanza e dedicarmi a cose che sposteranno il barometro della mia giornata verso il sorriso:

una doccia = capelli soddisfacenti…o per lo meno sufficienti.
pulizie di casa = trovare soddisfazioni da cenerentola nel vedere brillare i fornelli.
lenzuola pulite = per pensare a quando sarà già stasera e la giornata grigia sarà alle mie spalle.

buona domenica. by a desperate housewife.

si/no.

standard 9 aprile 2010 2 responses

mi piace l’odore del cartone lucido, quello dei biscotti, quello che se lo odori ricorda gli album di figurine. mi piace svegliarmi e vedere il sole sul mio terrazzo, segno che la primavera è davvero arrivata. mi piace l’idea che oggi scriverò altre pagine della mia tesi, arrivata quasi alla fine. mi piace zuppare i biscotti nel latte, fare i dolci per rilassarmi, guardare le mie piantine grasse in adorazione. mi piace guardare i miei tatuaggi.
non mi piace di dover dormire sempre sola, con la sensazione continua di sbagliare, di perdere tempo e di perdere anche un pò me stessa. non mi piace sentirmi dire che non c’è spontaneità in quello che faccio. non mi piace che non posso sentirmi libera forse perchè sono la prima a mettermi dei limiti. non mi piace che non riesco a trovare una persona di sesso maschile che abbia il coraggio di fare ciò che dice e di dire ciò che sente.
non mi piace stare troppo in pigiama. per cui ora, vado a vestirmi. 🙂

io amo il Giappone.

standard 8 aprile 2010 Leave a response


http://singularityhub.com/2009/05/12/smart-toilets-doctors-in-your-bathroom/

Io amo il Giappone, non c’è bisogno di aggiungere altro! Sapevo dei loro bagni altamente tecnologici, con tasti dai quali accedere a musiche varie (si, si…anche per coprire “certi” rumori), con suoni “stimolanti” (pioggia, cascata d’acqua, fiume in piena…), con la tavoletta riscaldata…ma mai avrei pensato che potessero arrivare a tanto! MERAVIGLIOSO!

un racconto

standard 6 aprile 2010 Leave a response

19 febbraio 2010.
Buio. Galleria di Tornimparte, nebbia e neve, qui è un paesaggio normale.
Trattengo il respiro, le parole, tra poco sarò in un territorio di guerra.
Tutto quello che “non c’è” è la normalità. Negli occhi delle persone, nei modi, negli sguardi. Percorriamo la strada fino al nuovo gruppo di case chiamato “Coppito Due”, incontro tetti crollati, muri inesistenti, piazzali, campi, spazi vuoti che fino a qualche tempo fa erano tendopoli.
E tanti camper, roulotte, casette di legno, segni di paura, instabilità, voglia di fuggire.
Le transenne, i nastri sulle porte delle case.
Crepe, enormi, su palazzi troppo nuovi.
Anche le mie lacrime si vergognano ad uscire, come se il dolore provato dagli altri fosse sufficiente anche per me. Tento di respirare più profondamente, per cogliere ciò che sto provando.
Gli occhi e il cuore si parlano. Io sono povera di reazioni. Perchè è tutto così strano, ciò che per me è scontato qui non lo è più. Intanto si sale verso Coppito, comincio a riconoscere qualcosa. L’asilo nido di mia nipote, quello nuovo, è come le Lego. Pare messo su con plastica e qualche vite. Protegge la sua vita ogni giorno, più di qualsiasi muro, messo su a suon di finto cemento.
L’ospedale, l’università. Le strade completamente distrutte dai mezzi che tutti i giorni tentano di ricostruire le case e di dare di nuovo un senso a questa città. Cartelli stradali, indicazioni, tutto improvvisato, precario, provvisorio.
Coppito. Intravedo la casa di via S. Bartolomeo e mi si stringe il cuore. Là dentro c’è ancora molta “vita” di Denise e Federico, ci sono i primi passi di mia nipote. Ci sono ancora le tracce della loro fretta del 6 aprile 2009, ancora la distruzione della scossa, crepe, finestre che non si chiudono più, c’è la polvere, l’umidità che sconfigge anche la legna morta da secoli.
Vedo i ricordi di chi non li ha più.
Le case nuove sono ancora molto approssimative, il cielo grigio certo non aiuta. Non ci sono nomi sui campanelli, sulle cassette della posta, come se nessuno volesse più dire “Ci sono” per poi doversi perdere di nuovo. I disastri così distruggono le identità ma creano il collettivo. I ragazzini sono già tutti amici, i vicini di casa mi salutano, anche se non mi hanno mai visto. Funziona solo un ascensore verso quei parcheggi fangosi dove più che altro si notano i pilastri ammortizzatori, per attutire l’effetto di nuove possibili scosse. E intorno c’è solo fango, la neve del Gran Sasso in lontananza e L’Aquila. Con le case chiuse, sprangate e le luci spente. Fa impressione.
Tutto gira intorno ai centri commerciali, che sono due. I negozi che hanno riaperto, provenienti dal centro, si sono distribuiti in qualche spazio dei due centri oppure sono per le strade, in piccoli chalet di legno, nei container. Passando, si vedono schiere di casettine, di due mura tirate su con la voglia di ricominciare. La “Farmacia del duomo” adesso è in un container, tenuto su da due mattoni per lato, in un parcheggio di un altro piccolo centro commerciale. Un negozio di vestiti da sposa in uno chalet. E poi impalcature, ancora transenne, strade chiuse, travi di legno a sorreggere una finestra, una porta, una muratura.
Tornando dalla pizzeria vedo le macerie di ciò che era una casa: mobili, porte, un auto. Tutto sotto le macerie. Poi ancora una chiesa senza una parete, senza più un senso, un’anima, un sostegno originale. Ed è ancora così. Ridotta come uno scheletro aperto alle intemperie.
Solo il buio mi ha impedito di vedere oltre. La curiosità, anche un po’ macabra, mi spinge a voler documentare almeno in parte quello che è successo. Perchè le parole non bastano, il senso dei miei occhi, distorto dall’amore per i miei cari, è troppo parziale, e vorrei provare ad andare oltre. Oltre quei 27 secondi di crepe nei muri, crepe nelle nostre vite, oltre al cinismo della rinascita, per poter capire ancora più a fondo il senso della mia vita e di amarla ancora di più.
Ogni volta che percorro la A24 non posso non pensare a quando, mentre io ero ferma in una corsia di emergenza con l’autobus tra Roma e L’Aquila, alle 15 del 14 luglio 2007, con 40° all’ombra, nasceva mia nipote. Io con l’autobus che quasi andava a fuoco e mia sorella che partoriva quella meraviglia che è mia nipote Letizia. Di certo, imprecavamo tutte e due. Ogni volta che vado all’Aquila ci penso, sorrido, non potrei fare altrimenti. E potrei raccontarlo altre mille volte. Come altre mille, diecimila volte, ascolterei il racconto della notte del terremoto dalla voce di chi lo ha vissuto. Da chi ha la fortuna di raccontarlo. Deny e Fede dicono che chiunque sia sopravvissuto non può parlare d’altro, è così.
Oggi siamo andati in centro, abbiamo camminato tra le vie che un tempo erano vive, piene di voci. Tutte le persone che abbiamo incontrato, di cui sentivamo frammenti di discorsi, parlavano del terremoto, di cosa hanno fatto durante la scossa, di come sono scappati, di dove stanno adesso. Perchè nelle vecchie case non ci sta più nessuno, tapparelle, cancelli chiusi, sono il panorama più frequente qui.
Si cammina tra le macerie. Cerco di “assaporare” cosa possa significare tutta questa distruzione ma non riesco, ovviamente, a coglierne il turbamento che ha lasciato in ogni persona. I calcinacci, le impalcature di legno e tubi innocenti coprono le voci dei palazzi distrutti, le vetrine dei negozi sono vuote, i manifesti del cinema sono quelli di quasi un anno fa.
Per quante foto io possa fare, non sarà mai abbastanza. Mio cognato dice che c’è una cosa che non si può fotografare: il rumore del terremoto. Mia sorella annuisce, in silenzio.
Un boato che arriva da sotto la terra e sale, sale d’intensità e pare che ti risucchi in un vortice, una sensazione di implosione, di crollo di tutto ciò che hai intorno, le pareti, le strutture, il rumore delle mura dei palazzi che sbattono tra loro, stridono, si spaccano.
Quel rumore dal cuore del sottosuolo che da lieve diventa assordante fino a non farti sentire chi hai accanto, un grido di aiuto, una voce di disperazione. Il terremoto. Qualcosa che rompe le sicurezze e le getta tutte in aria, senza che tu possa decidere come e cosa fare. Se non sperare che quel suono cupo, sordo, senza scampo e senza anima, la smetta di svegliarti ogni notte.
Mio cognato dice che il terremoto è come un serpente, in effetti è ciò che si coglie vedendo con quale “criterio” ha deciso di distruggere. Sinuoso, da sotto, letale, si è preso chi era sopra il suo percorso. Case, a pochi metri l’una dall’altra, completamente diverse: devastate, senza più pareti, scale, finestre, con i garage appiattiti, oppure senza un graffio.
Cemento armato fatto con la sabbia che si sgretola, pietre di ruderi disabitate come una beffa sono ancora in piedi. Alcune vie sono dei cimiteri. Palazzi interi crollati, strutture che sembrano bombardate, la casa dello studente, che non c’è più. Rimangono le foto dei ragazzi morti, rimangono i palazzi accanto, con le porte interne che diventano esterne, rimangono i vigili del fuoco a lavorare, sempre, anche di domenica, per mettere in sicurezza ciò che si può.
Il lavoro qui è praticamente infinito. In centro c’è solo un bar aperto, il resto è tutto chiuso, inaccessibile, nemmeno con lo sguardo si può vedere dentro certi vicoli. Le chiese distrutte, la storia, l’arte sgretolata e lavata via dalle piogge, la vita e la quotidianità finite.
Le strade sono pietose, tutto ciò che è anche solo poco fuori dall’indispensabile diventa irrealizzabile, rimandato. Si fa solo ciò che si deve fare. Non so se c’è una via per risolvere le cose meglio di così o per farlo nel minor tempo possibile ma quello che so è che L’Aquila non volava prima del 6 aprile 2009 e non vola neanche adesso. Le macerie sono depositate negli occhi delle persone, ognuno ha trovato la sua via per andare avanti, per cercare di dimenticare, ciò che sento dentro di me non somiglia all’ottimismo.
Vincerà l’indifferenza che, dopo qualche tempo, coprirà la coscienza sporca di chi ha costruito case con la sabbia? Vincerà la certezza della rinascita di chi ha sofferto? Questa tragedia farà risollevare anche chi pensa di non farcela?
Ho visto la casa di mia sorella con le crepe, con i mobili in disordine, i libri caduti dalle mensole, i carillon di Letizia impolverati. Forse io, non ce l’avrei fatta a rialzarmi. Ma le persone sono più forti di ogni muro. La dignità ferita di chi ha perso tutto, TUTTO, farà da calce alle prossime costruzioni, c’è chi ha voglia di mettere un punto, voltare pagina, riscrivere la propria storia. Senza dimenticare, ma trasformando la morte in una base di ricostruzione indistruttibile.