CELAPOSSOFARE.

standard 27 gennaio 2014 60 responses
Uno dei tanti ritorni




Ho quasi tutti gli amici a Firenze.

Nessun parente nell’arco di un centinaio di chilometri.
I suoceri a più di quattrocento (fidanzato terrone!).
Ho scelto la mia vita qui, a metà strada tra il Rinascimento e la disorganizzazione.
Ho scelto di vivere qui, credo, ma ogni volta che sto via qualche giorno e torno…mi sento un po’ confusa.
Le cose da fare si accumulano, quelle messa da parte, gli obblighi casalinghi, le scadenze che si rincorrono e le domeniche da scansafatiche si annullano. 
Mi confondo perché metto sullo stesso piano e non so scegliere la priorità.
Alla fine ci scapitano le passeggiate, le torte, i libri, la mia cultura.
Quando parto lascio due gatti, ritrovo due belve assatanate di sangue. Ritrovo dei frammenti sparpagliati di cose non più riconoscibili, i frammenti delle mie cartoline comprate in giro, per i musei, le due belve mi smangiucchiano i ricordi.
Torno e ritrovo panni da lavare, i miei pensieri sul comodino, le parole nel cassetto, detersivi e mensole troppo impolverati.
Allora non rimane che CORRERE. Per schiarirsi le idee, guardare oltre, più lontano ancora, perdersi e trovarsi, mettere alla prova, sentire.
Sentire che ce la faccio, che ci riesco.
Ad incastrare tutto, a fare tutto, ad abbracciare tutti e, infine, a lasciare tempo a me di respirare, seduta sul letto, per scrivere queste due righe.

CELAPOSSOFARE.

Avida di tempo, vi saluto.

Ho le mie scarpe da corsa che scalpitano.

MEZZANOTTE E UN QUARTO.

standard 20 gennaio 2014 71 responses
Questo sonno, coltivato in una notte agitata, è un sonno simpatico. Mi tiene sveglia. 
Palpebre semi aperte, demenza intervallata a frequenti disconnessioni di neuroni, livelli di attenzione pari a quelli di un peluche di mia nipote.
Questo sonno, ha un nome, Giovanni. Ha anche un peso, 3,280 meravigliosi kg di bellezza. Due occhietti che ancora devono scoprire tutto. Delle manine che immagino morbide e profumate, che diventeranno abili cercatrici di guance, avide arruffatrici di capelli, irresistibili vittime di morsi.
Questo sonno si chiama impazienza, amore, preoccupazione, destino, impeto, felicità.
Questo sonno è il primo regalo che mi fa mio nipote, appena nato, in una notte di Gennaio.
Vorrei regalarvi la mia gioia.
Che per una volta non è solo smielatissimo ed appassionato amore, ma amore che ha le sembianze di un essere fragile e profumato di latte, di vaniglia, di dolcezza.

Questo sonno è la mia condanna, in un lunedì in cui ogni peso sembra sollevarsi e svanire, come fosse vapore. Forse è così che dovrebbe essere sempre, ogni giorno che ci sembra insostenibile, ogni giorno in cui il peso delle cose ci schiaccia, o da esso ci lasciamo schiacciare.
Pensare al germogliare della vita.
A come sarà fiorita e colorata.
Al nostro essere figli, zii, fidanzati, genitori, nonni.
Al nostro essere sorelle e fratelli, amici, cognati, indissolubilmente legati a queste radici che ci tengono qui, in vita, per generare in qualche modo altra vita.
Chissà, prima o poi toccherà anche a me, chissà se vorrò scrivere, registrare, fotografare le parole e i momenti…non lo so. Questa è una vita ancora da scrivere. 
Quello che mi importa oggi è la vita che ha iniziato a scrivere lui, senza nemmeno sapere come, regalandoci occhiaie, sonnolenza e stordimento…
Ma un’immensa e rinnovata speranza per TUTTO.

Gustav Klimt – Le tre età della vita (particolare)

SUONARE C15.

standard 5 dicembre 2013 28 responses

Quattro palazzi grigi cemento, scorticati dal tempo e dalle intemperie.

Ventuno anni appena compiuti, freschi ed ingenui come un quadrifoglio bagnato di rugiada.

Una stanza poco accogliente, rustica e vuota, senza personalità, senza ricordi alle pareti, una vita da scrivere e attaccare.

Due piedi sulla soglia della porta blu. 
Tanti numeri da controllare, tutto sembra uniforme, statico.
Pantaloni mai abbastanza rattoppati, spirito libero, colori e frenesie mai frenate.
Quello che mi aspettava tra quelle pareti non potevo saperlo, quel 27 gennaio 2003, fatto di lacrime e separazioni, di trasloco in autobus, di zaini in spalla pesanti e accessori inutili che facevano diventare ancora più pesante lo spostamento.
Ed era così definitivo che non potevo saperlo.
La mia vita a Firenze, da quel momento, ha preso un’altra strada. La ripidità iniziale è stata ripagata, perchè sento ogni giorno la forza acquisita sulle mie spalle, ogni giorno che leggo negli occhi del mio migliore amico quanto sono stata fortunata ad incontrarlo lì, tra più di 400 facce sconosciute, nemiche e in conflitto.
Una decisione presa senza avere altre scelte se non quella di tornare dai miei, mollare l’università e la mia nuova vita. Una decisione sofferta.
Perché dietro quella porta era tutto sconosciuto, tanti tasselli erano ancora da comporre e costruire, trovando loro un senso compiuto, sperando di trovarlo, senza alcuna certezza se non l’acqua fredda sulla faccia la mattina.
Quattro palazzi che erano un villaggio, un campus, un paese, il mio mondo.
Lo sono stati per sei anni, durante i quali ho traslocato da torre a torre, da stanza a monolocale.
Quattro palazzi che mi hanno vista crescere, trasformare.
Giovane, inesperta, sempre contro.
Donna, compiuta, presente.
Un passo dietro l’altro, vincendo vergogna e sguardi a volte troppo taglienti, amicizie e legami così forti che vincono il tempo e le diverse esperienze, ricordi buffi, solitari.
Dio quante risate tra quelle pareti. Sento ancora lo scintillio chiaro delle nostre anime, così libere.
Libere da tutto.
Dalle imposizioni della crescita, dal realismo crudo di una laurea desiderata ma poi quasi inutile, anime libere dai sotterfugi e dalla malignità.
Quattro palazzi grigi cemento, che ho imparato ad amare tantissimo.
La C15 era la mia prima stanza. Torre C, secondo piano, stanza 15, sulla sinistra dopo le scale.
Li sogno spesso, quei giorni. Non perchè adesso viva una vita peggiore, ma probabilmente perchè è LI’, proprio LI’ che mi sono formata, che i piccoli pezzi di plastilina si sono lasciati modellare per creare questa gran pezzo di gnocca donna che vedo adesso.
Ed è stato LI’ proprio LI’ che ho conosciuto i due veri protagonisti di questa mostra.

Maurizio e Mesquita.
Sardegna e Angola.
Biondo, occhi azzurri, fotografo. Nero che più nero non si può, TUTTOLOGO (anche perchè se dovessi seriamente dire la sua professione non saprei da dove cominciare!).

Insomma. Questi due qui, insieme, hanno dato vita ad una mostra, appunto. Un’unione di culture, di amicizia, di larghe intese, di unioni, di condivisione, sorrisi, rispetto, attenzioni, coinvolgimenti, dettagli materiali e immateriali.
Se passate da Firenze, la Feltrinelli International la ospita dal 5 dicembre al 7 gennaio 2014.
Non vedo l’ora di essere lì, stasera, a vedere gli occhi del mio amico brillare di gioia ed emozione per un traguardo, non il primo, della sua carriera, ma soprattutto PER la sua persona così unica, che occupa un posto indissolubile nel mio cuore.
(link ad un articolo de La Repubblica – galleria fotografica con le foto della mostra!)
 Firenze, Feltrinelli International, dal 5 dicembre al 7 gennaio 2014.
Berry e Mesquita – Fotografia di Maurizio Picci.

Occhio per Occhio.

standard 18 ottobre 2013 25 responses
Ogni mattina inciampo sulla sveglia.
Ho un ciuffo che saluta quello opposto, scomposto, come sono scomposta io, quando sento quel trillo, maledetto trillo, che mi distoglie dal torpore caldo delle coperte.
Cerco di concentrarmi su cosa ne sarà della mia giornata. 
Devo ottimizzare.
Un tour di social mattutino ci vuole sempre, è come lavarsi il viso.
Non importa se i gatti ti hanno dormito sulla testa (e non per modo di dire) da metà notte in poi, devi alzarti.
Certo è che alcune volte mi arrabbio, proprio di mattina. Perchè magari in sogno avevo creduto in una finzione, avevo pensato di essere circondata da una saggia umanità.
Ma in fondo mi piace arrabbiarmi, perchè vuol dire che qualcosa di buono ancora in me c’è, che tumulta, sobbolle, si agita. E mi dispiace, perchè non ho quella proprietà di linguaggio che vorrei, perchè non conosco gli argomenti quanto vorrei e molto spesso i pensieri finiscono in un calderone difficile da gestire.
E’ che mi sono stufata di essere carina e coccolosa. Io sono intollerante, non solo al lattosio.

Non tollero più le persone presuntuose.
Non tollero chi non ha niente da fare e si lamenta che si annoia.
Nemmeno chi mangia come un bufalo e sostiene di ingrassare…invece rimane uguale.
Non tollero l’indifferenza. Meglio un NO di un vuoto.
Non tollero chi dice di non avere soldi quando non è così.
Non tollero chi non è capace di scrivere in italiano.
Ci sono tante cose che non sopporto più.
Ma una in particolare.
Dopo la tragedia di tutti quei morti nei mari di Lampedusa ne ho lette, sentite tante.
Non seguo la politica da tanto e forse non l’ho mai voluta nemmeno seguire. Ma qui non si tratta di politica, di partiti, di religioni, di NOI. Si tratta di persone morte, senza alcuna colpa, se non il desiderio di trovare quella vita migliore che NOI stessi ricerchiamo per i nostri figli, che NOI stessi dipingiamo come una favola nelle nostre ovattate pubblicità televisive. 
E se il desiderio è una colpa, allora siamo tutti colpevoli di percorrere vite ricche di speranza.
Se il vuoto che ci forma dentro questo benessere che ci circonda è così grande da inghiottire la pietà, l’anima, il cuore, allora non solo siamo colpevoli, ma siamo anche i diretti carnefici.
Siamo i boia che uccidiamo per la seconda volta centinaia di persone.
Siamo boia con il sorriso sulle labbra e il sangue sulle mani.
Perchè non importa che siano tanti morti per essere più o meno assassini, lo si è e basta.
E quindi io NON TOLLERO chi si dichiara felice di queste morti. 
Quale soddisfazione si può trarre anche solo da un pensiero così misero e meschino? 
Questo è uno di quei momenti in cui la mia mente si affolla. E vorrei affermare tante cose, sentenziare, dire, condannare. Ma credo che non servirebbe, non ho fiducia nell’umanità, in QUELLA umanità, perchè QUELLA non ha assolutamente niente di umano. 
Il 30 novembre 1786 nel Granducato di Toscana veniva abolita la pena di morte. Forse la grettezza e l’ignoranza sono ancora rimaste così indietro? Forse pensiamo ancora che l’Occidente sia ancora capace di dettare leggi civili e di andare ad insegnare la CIVILTA’, quando in alcuni di questi civili paesi esiste ancora la pena di morte?
Tu, che sorridi e ti gongoli delle morti degli altri, per me hai una lettera scarlatta sul volto, perchè ti voglio riconoscere. E non per lapidarti, perchè tutti pecchiamo (io per prima, con tutta quella lista di intolleranze varie). Ma perchè vorrei che per un attimo tu fossi visto da tutti quegli occhi innocenti che ora non hanno più niente da poter desiderare. 
Magari sentiresti, in fondo a quel vuoto infinito che hai dentro, rimbombare un piccolo suono di vergogna.
K. Malevic – Tondo Nero (1913)

Yin e Yang.

standard 5 settembre 2013 35 responses
In questi giorni non so mai da dove cominciare. 
Sarà che è Settembre, il mese degli inizi, e io come al solito vado contro corrente.
Ho voglia di scrivere di come lavo i piatti.
Di come mi sono sporcata le mani di blu inchiostro.
Di quanto è bello il minuscolo gattino rosso che ho da due giorni per casa.
Di come vorrei fare una passeggiata tra i campi, tra le mani un grappolo d’uva dolce.
Del vento fresco delle cinque di mattina.
Del peso del lenzuolo sulle mie gambe scoperte.
Di quell’ombra che mi segue, che io seguo, ogni giorno.
Voglio dettagliare tutte le cose che ho visto in viaggio.
Il vento forte di Tarifa che arrivava dal Mediterraneo, lanciando sulle nostre gambe la piccola sabbia dorata.
La condensa sulla caña di birra, il sapore dei montaditos e delle olive.
Le polemiche e i manifestanti alla dogana, in uscita da Gibilterra, le sue scimmie antipatiche, la discesa sotto il sole cocente.
Le curve infinite per arrivare a Ronda e la sosta al distributore disperso nella Sierra de las Nieves, dopo aver salutato il mare e abbracciato la M4ry a Malaga.
La profondità di campo, di vita, di appartenenza osservando l’Alhambra al tramonto.
Tutte le gocce di sudore per ogni passo a Siviglia, che fossero le cinque di mattina o mezzogiorno.
I castelli, le fortezze, i giardini, le salite, i nomi delle calle.
Le volte in cui abbiamo sbagliato strada, girando in tondo alle rotonde o perchè appena avanti, girare a sinistra e magari a sinistra non c’era nessuna strada. 
Le sfilate assurde di modelli assurdi (e nudi) a Ibiza, il viaggio in aereo dove ci sentivamo degli attempati vacanzieri in un mondo di teenager, costantemente richiamati dalle hostess.
La città di cui mi sono innamorata, Cordoba, non so nemmeno spiegare il perchè, forse anche per il sapore del fico che mi sono comprata al mercato della frutta.
E’ settembre quindi, l’inizio e la fine. E’ un cerchio, con due semicerchi di colore diverso, se ne distinguono i tratti. E’ qui che si spengono i colori e si radicano i progetti, anche se a lungo termine. 
Yin e Yang.

E ciò che mi lascia sospesa è questa perenne alternanza, ma è anche ciò che mi lascia in vita. L’alternarsi delle stagioni, delle emozioni, delle notti che passano diventando sole. 
L’evoluzione di ogni cosa, l’attesa e la corrispondenza, la speranza, la costanza.
Faccio entrare la notte, in questo settembre celeste chiaro. 
Nel buio, a tentoni, per fare ordine. 
Tutto torna.

La lunette d’approche – R. Magritte (1963)

Le mille e una vacanza…

standard 27 agosto 2013 84 responses
“Ciao. 
Mi chiamo Berenice e non vado in vacanza da una settimana.
Cerco di resistere, ma le tentazioni di ripartire sono tante.”

Se esistesse un centro di riabilitazione ci andrei, credo sarebbe affollato. 
Il problema sorge quando ti accorgi che una vacanza è veramente finita.
Io di solito me ne accorgo quando mi tolgo lo smalto, messo con tanta cura prima di partire.
Se deve durare un paio di settimane già il primo giorno si sbecca, garantito.
E allora sei lì che ti cancelli un piccolo pezzettino di ricordi dalle unghie e i piedi ti raccontano di tutti gli asfalti calpestati. 
Pavimenti e piastrelle decorati, maioliche roventi delle due del pomeriggio, sconosciuti marciapiedi, panchine che accolgono lamenti e fanno recuperare sorrisi.
E’ che non basta una vita per raccontare ciò che vediamo. Non bastano le pagine, l’inchiostro, il sapere, la conoscenza. Non bastano gli occhi per rammentare e registrare i passaggi, le andate, i ritorni.
Non basta saper descrivere.
Non basta fare una foto così come vedono gli occhi, come se fosse una prospettiva animata.
Non basta ricordare le sensazioni così forti come le ho vissute, i battiti, il modo in cui mi sfioravi le mani, le carezze del vento sulle guance arse dal sole d’agosto.
Dunque, non rimane altro che saper accogliere il dono di quello che si ha, di quello che si decide di essere, di fare, di vivere. Quello che ho è meraviglioso. Lo colgo e lo custodisco.
Sei tu quello che io desidero.
E’ questa la vita che ho scelto.
Sei quella unica prospettiva che voglio registrare, la vita che mi voglio godere.
Sei quel sorriso che mi merito ogni primo raggio di sole.
Respiro. E’ così caldo che quel sole che entra dalle narici e brucia tutto ciò che trova.
Ma il caldo non offusca l’essenza delle cose, la bellezza delle fiabe d’oriente, i protagonisti e quegli sguardi che nemmeno la migliore fotografia riesce a catturare. Il caldo mi confonde ma scioglie anche questa smania di ricordare e le ansie che mi accompagnano da sempre quando faccio e vivo qualcosa di bello. 
Con il caldo, come in tutte le situazioni estreme, rimane l’essenziale.
L’amore. Il mare. Le intese. L’oceano.
Una valigia a testa, una macchina e più di milletrecento chilometri indimenticabili.
Driiiiiiiiiin…la sveglia è suonata di nuovo…
FOTO FURBA nr1 – GIARDINO DEL GENERALIFE – ALHAMBRA – GRANADA
FOTO FURBA nr2 – ALHAMBRA – GRANADA
DAY & NIGHT – ALCAZAR – CORDOVA
FOTO FURBA nr3 – INGLESI PER UN GIORNO – GIBILTERRA
CONFINI (VENTOSI) – ISLA DE LAS PALOMAS – TARIFA

FOTO FURBA nr4 – OCEANICHE PROSPETTIVE – TARIFA

FOTO FURBE nr5 – SIAMO ARRIVATI…ALLA FRUTTA! – REAL ALCAZAR – SIVIGLIA
10KG IN 12GG – Ibiza, Denia, Alicante, Murcia, Granada, Cordoba, Malaga, Ronda, Gaucin, Casares, Gibilterra, Huerta Grande, Tarifa, El Puerto de Santa Maria, Cadice, Siviglia – LA ZINGARATA ANDALUSA!

Come se non ci fosse un domani.

standard 7 agosto 2013 17 responses
Ho un singhiozzo prepotente.
Sono quasi incosciente.
Stanca.
Misuro con le mani la distanza da qua a domani.
Ogni centimetro si allunga, per effetto del caldo.
Sono minuti molli, fatti di nuvole soffici.
Sono minuti morbidi, ci salto sopra come fossero materassi su un prato verde.

Oggi è quel giorno dove il domani si nasconde.

Dove ogni passo pesa come se alla caviglia avessi una catena.
Dove ogni sguardo pesa come se sulle ciglia avessi un piccolo bottone.
Dove ogni singlo movimento assume dei contorni grotteschi.
E quindi misuro.
Un oggi infinito lo baratto per un domani svelto, che mi accompagnerà dove tutto è giovane, soprattutto la notte.
Chiedo pazienza, a chi mi legge. 
Pazienza per la mia vaga attenzione, pazienza per le mie parole scariche.

Da un’estate all’altra mi è cambiata la vita. In meglio. Ed è tutto vero.
Io ti vedo, domani, anche se ti mimetizzi sull’asfalto rovente.
Non sei un miraggio. Sei qui.
Se sopravvivo alla zingarata andalusa ci rivediamo qui, più abbronzati, rilassati, forse anche più stanchi di prima. 
Mi è passato anche il singhiozzo.

Adios Amigos! Hasta Pronto!

 

Guardia Sanframondi – Centro storico

Voce del verbo avere.

standard 30 luglio 2013 66 responses
Ho sentito i miei sandali battere sul selciato antico di queste strade.
Ho sentito la fatica delle ore calde, i vicoli bui e stretti, un ruscello segreto scorrere tra le mura del paese.
Ho visto occhi furbi distogliere lo sguardo al mio passaggio, cespugli d’erba selvatica nascere sulle tegole irregolari di molti tetti.
Ho sentito la tua mano che camminava con le dita sulla pelle umida della mia schiena.
Ho visto quello che volevo vedere.
Ho sentito di ingiuste vendette.
C’è da perdonare, da aspettare, da pazientare.
Un viaggio non basta per conoscere le proprie sfumature, ma serve per colorare un polpastrello e lasciare una traccia, indelebile.
Sono poco poetica solo perchè rischierei di essere troppo malinconico-romantica. E’ che mi sono sentita a casa…e non è una cosa così scontata, per una rompipalle come me. 
Sentirsi accolti è bello. Ed è anche RARO. 
Ho visto, ho sentito, ho avuto tutto quello di cui si può avere bisogno. 
Guardia Sanframondi – chiesa di San Rocco a pianta ottagonale
Guardia Sanframondi – centro storico
Guardia Sanframondi – una delle tante fontanelle del paese
Guardia Sanframondi – centro storico con bizzarre soluzioni architettoniche
Guardia Sanframondi – centro storico
Lui ed Io ?
 Ps: …per ora i suoi occhi azzurri sono solo miei. Non ve li posso concedere.

Blink. Come un battito di ciglia.

standard 19 luglio 2013 45 responses

Sono come un pesce fuori dall’acqua.

Annaspo. 
Un lato sulla battigia, vedo con un solo occhio. Lo giro e lo rigiro, camaleonticamente parlando, per guardarmi intorno, ma vedo cielo. Batto forte la coda, sento l’acqua vicina, ma non mi riprende con se.
È che sono un “pesce da weekend”. L’acqua il venerdì si avvicina di più, bagna la coda agitata, la seconda onda è ancora più forte, la battigia è solo un ricordo…le branchie riprendono un ritmo normale. 
Respiro. 
E se di solito sono un pesce in questo periodo sono diventata un fossile. È rimasta la mia sagoma su un sasso, qualche centinaia di estati fa, per risvegliarmi non serve nessun incantesimo, solo l’odore del sole. E del venerdì.
Recupero la mia forma, le mie squame lucenti, le pinne colorate e iridescenti, il guizzo e la vitalità. Il mio problema però non è il caldo, è il tempo, il tempo nel senso di ore disponibili per fare tutto quello che voglio. Il dono dell’ubiquità non è umano, ma a me basterebbe il teletrasporto.
Un blink e via, sono sotto l’ombrellone.
Un altro blink e via, sono in cucina a preparare la cena della domenica.
Quindi…annaspo. Respiro. Annaspo. Respiro.
Oggi respiro. Ma ho passato una settimana ad annaspare. A cercare di assaporare le cose belle che mi sono successe, senza per forza credere che svaniscano con un blink. Che poi io non sono pessimista…è che sono un po’ insicura.
E quando sono insicura cosa faccio? Mi fossilizzo. Mi chiudo. Doppio chiavistello, occhi persi nel vuoto. E mentre sono lì, sola, che vago nel torrione del castello, non mi rimane altro che rifugiarmi nelle certezze: forno acceso, frusta, ingredienti…e una penna per scrivere.

Mercoledì 17 luglio
Guardavo l’uovo e lo zucchero, nella ciotola, prima di fare il dolce.
L’arancione forte che si riempie di marroncino chiaro, color zucchero-di-canna.
I granelli che assorbono la liquidità.
Una questione di punti di vista, chi assorbe cosa, chi si impasta per primo, chi accetta la forma dell’altro.
Anche la mia vita è così, trasmessa a tratti su canali diversi dei quali non conosco il numero. Sobbalzo, in preda ai singhiozzi di un momento storto. Ci vuole così poco ad abituarsi alle belle forme, quelle che corrispondono, che non conoscono bolle d’aria, separazioni. Ci vuole così altrettanto poco per distaccarsi.
Aprire la scatola, in modo ordinato, togliere qualche pezzo. Richiudere. Smontare e rimontare, come con le costruzioni, come da bambini, quando tutto è possibile.
Si tratta di equilibri messi su basi paludose, in fondo io sono Maremmana, non può essere che così: acqua bassa, silenzio, piccole zanzare letali che lasciano cerchi concentrici impercettibili sulla pozzanghera, fili d’erba sporadici.
Quindi apro la scatola, il fiocco è bello ma il contenuto è povero, sono proprio io quella che vedo?
 
René Magritte – Falso specchio (1928)
Blink.
Per un attimo chiudo gli occhi. 
Sento il mare che mi rapisce di nuovo, posso respirare, guardare dove voglio, qualche paura nel taschino, che come un fiore perde i petali e svanisce.
Sento di non avere orizzonti ma solo possibilità.

Andalusia.

standard 9 luglio 2013 72 responses
Non ci sono foto da guardare, ma sfoglio le pagine lo stesso, in questa calda mattina di luglio. La guida sdrucita della mia vacanza. L’odore è quello della biblioteca, di mani, di persone, di passaggi.

“L’Andalusia è una terra sfuggente,
dove non si arriva mai veramente,
che va riconquistata ogni giorno.”

L’eco di queste parole si diverte a rimanere nella mia testa, come se ci fosse una cassa di risonanza grande, profonda e dalle pareti elastiche. Il suono ritorna vivo, io ne prendo le sembianze, metto ogni dito nel guanto e lo faccio calzare bene. 
Mi sento terra, aria calda, arsa dal vento e dal sole. Mi sento desertica e sola, contrastata e immobile. Mi sento ballerina, straniera, avventuriera.
Il peso dello zaino sulle spalle.
Mi sento sfuggente, come la terra che mi aspetta questo agosto.
Sono sfuggente quanto sono presente, in un equilibrio contrastato che forse nemmeno io conosco che talvolta mi inquieta, mi spenge i ricettori, mi zittisce.
E allora studio questa superficie così malridotta, questo ghiaccio pieno di venature, incrinato dagli errori e dalle ferite, lo livello con la mano. Ogni ramificazione può essere la letale spaccatura che mi fa affondare.
Quando sono Andalusa sono così sfuggente che non mi riconosco.
Passo veloce davanti allo specchio, senza lasciare alcuna traccia.
E una perpetua richiesta.

Conquistami.
Conquistami, ogni giorno.
Come se fossi uno dei Conquistadores.
Come se ci fosse da combattere per me.
Come se io fossi una terra sconosciuta, che esplori attento, sulla quale indaghi, della quale impari a fidarti, per la quale ti disperi o esulti.
Rendimi unica, col tuo sguardo.
Perchè voglio essere la tua erba viva non una steppa arida.
Perchè voglio rinfrescarti con la mia rugiada, donarti il mio tutto, spossarti, soddisfarti, riempirti.
Perchè voglio sconfiggere questo buco nero che ogni tanto mi avvolge.
Con i miei colori, con le tue armi.
Con i miei sorrisi, con il tuo amore.

Minas de Mazarron (Murcia) – Foto presa QUI
(lo so, lo so che non è in Andalusia, ma nel nostro itinerario “folle” dovrebbe essere di passaggio!)