Il Paradiso. Antisamos, Cefalonia – Giugno 2013 |
Se sei brutto ti tirano le pietre.
Se sei Berry ti tagli i capelli.
Corti. Sempre più corti.
Se sei bello ti tirano le pietre.
Se sei Berry, non sei bella, sei pazza.
Se poi torni a Firenze dopo tre giorni e mezzo di mare/sole/relax/cibo/amore e trovi SEDICI GRADI…allora impazzisci, anche se non sei me.
E allora penso a quel mare.
Quel mare che si confonde con il cielo.
Quel mare che non ti fa vedere l’orizzonte, se non con il riflesso del sole del tramonto.
Quello che è freddo come il ghiaccio, trasparente e chiaro.
Quello che diventa oscuro e nebuloso.
Quel mare che sembra un lago, che ti lascia il sale addosso, che ti fa respirare bene, che ti fa riempire di libertà gli occhi.
Senza limite.
Quel mare che ti riconcilia con la vita, con le insoddisfazioni, con i sospiri troppo trattenuti, con i sapori sbagliati, i disagi.
Quel sale che ti gratta un po’ la pelle, che ti rende ruvido il tocco delle mani.
Quel soffio di vento che ti fa impazzire i capelli e volare quell’alga secca sulla pancia.
Quel mare lì, quello in cui sono annegata e rinata, il mare in cui ti ho tenuto per mano e ti ho voluto scrivere ogni minuto una dichiarazione d’amore. Ogni sorriso che mi hai fatto fare, quelli della semplicità quotidiana, insieme. Insieme.
Perchè non so se i tuoi occhi sono azzurro-cielo o azzurro-mare.
Ma so che hai riempito d’azzurro la mia vita.
Il mio cielo.
E il mio mare.
E poi QuellaStronza mi chiede di racchiudere in dieci, semplici punti, i motivi per cui amo l’estate. Niente di più facile per me.
Per i polsi rossi. Si, perchè quando vado al mare con le mie sorelle giochiamo a beach volley (una specie di) fino a che morte non ci separi.
Per il cocomero. Togliere tutti i semini e poi affondarci la faccia.
Per il sole. Devo essere stata un animale a sangue freddo perchè, in questa vita, non sopporto l’idea di non vedere il sole troppo a lungo.
Per i piedi liberi dalle calze. Dio mio, le odio. D’estate ciantelle anche con la pioggia…tiè!
Per l’insalata di riso. Quintali di maionese e valanghe di olive.
Per i pomodori. Dolce e salato insieme, con il succo che si sparge ovunque. IL TOP!
Per i difetti dell’inverno che diventano inutili preoccupazioni. Perchè il caldo scioglie ogni nodo, lenisce ogni sussulto e cancella tutti i dubbi. Quello che conta resta, il superfluo se ne va.
Per i tatuaggi nuovi che fanno capolino dai vestiti corti. Così sembro un piccolo folletto con la pelle dipinta.
Per i colori. I fiori più belli, le sfumature della natura, i campi di grano con le rotoballe.
Per il mare. Bisogno di spiegazioni? Vedere/leggere sopra.
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Vi presento il mio logo! Finalmente dopo più di 3 anni online ce l’ho fatta, tutto grazie all’aiuto della mia collega grafica! Grazie Dona!
A voi piace? Io LO AMO.
Eternal Sunshine of the Spotless Mind.
Un mare di mi manchi.
Un mare di persone perse per strada.
Un mare di pensieri.
Onde e onde di parole.
Riemergo e me le sento tutte attaccate addosso.
Orme del mio passato.
Ma voi…ricordate il vostro passato?
Io non ricordo mai niente. Niente. È incredibile come io riesca a rimuovere fatti, avvenimenti, dialoghi, discussioni. Qualsiasi cosa avvenuta in un passato relativamente recente o remotissimo…lo cancello.
Un mare di persone perse per strada.
Un mare di pensieri.
Onde e onde di parole.
Riemergo e me le sento tutte attaccate addosso.
Orme del mio passato.
Ma voi…ricordate il vostro passato?
Io non ricordo mai niente. Niente. È incredibile come io riesca a rimuovere fatti, avvenimenti, dialoghi, discussioni. Qualsiasi cosa avvenuta in un passato relativamente recente o remotissimo…lo cancello.
Eternal Sunshine of the Spotless Mind |
Ho una cartella nella mia mail che si chiama Ricordi. Ci sono parole lì, che sono sanguisughe. Ogni volta che la apro, per non so quale motivo masochista inutile, vengo investita da quel mare di cui parlavo sopra. Ricordi, persone, occhi, momenti, richieste inascoltate d’amore, di ascolto, pretese, disperazioni, dialoghi divertenti e scanzonati, quando whatsapp e facebook non avevano ancora intasato le nostre vite virtuali fino a farle diventare così ripiene da farci venire voglia di scappare, di non essere più noi, di vestirci di abiti polverosi e nasconderci nelle soffitte a respirare muffa e foto antiche.
Ogni tanto decido di andare a leggere, di spogliarmi della mia razionalità e tornare indietro, che sia un passo, che siano cento, per ritrovarmi. Perchè comunque, per quanto io dimentichi, sono io, quella persona di cui leggo, quella persona implorante, quella persona invasa dal sacro fuoco della scrittura per qualcuno di cui ora a malapena ricordo il nome, gli occhi, il modo in cui mi sfiorava e se mai, in qualche modo, mi avesse mai sfiorato davvero.
Forse questa è stata la mia salvezza. Dimenticare.
Ecco perchè non riuscirò mai ad essere veramente cattiva. Perchè dimentico.
Ecco perchè non riesco e non voglio mai chiudere le porte con “chi passa”. Perchè è inutile.
Perchè il valore dei ricordi è pari al valore dei sorrisi spesi per quel ricordo.
E non serve che rimanga altro, non per me. Che ogni sguardo abbia la sua prospettiva e ogni mente decida di cogliere il dettaglio che preferisce, i miei sono stati colti e, adesso, sono sfioriti. Io ho preso la mia strada o magari sono rimasta ferrma, non so, però sento questo desiderio forte di lasciarmi indietro molto di quello che non serve.
Serve l’amore. Serve l’amicizia.
Servono gli sguardi d’intesa, i traguardi raggiunti insieme, servono le risate da mal di pancia e i sorrisi appena accennati.
Ma le parole, quelle forti, che rimangano pure legate al momento a cui appartenevano.
Io preferisco vivere senza rancori. Perchè molto spesso questo significa ricordare in modo “pieno”.
Via i rancori della persistenza.
Che rimangano i frutti di questi battiti di ciglia, che ci accompagnano, che mi sussurri ancora all’orecchio questo richiamo per soppesare la differenza tra quella che ero e quella che sono, che io sia capace di intravedere oltre, senza mai mettermi nessun freno.
Quando arrivo alla fine di questi post (che in realtà vorrei continuare) mi sembra di essere ubriaca. Che poi non so nemmeno cosa vuol dire visto che sono astemia da sempre. Però sono ubriaca di pensieri, spossata e sbronza (Mary lo sai che è colpa tua no? Come dice Vaty…insieme siamo pericolose!).
E mi piace lasciarmi prendere da questi flussi, da queste onde, sento lo sciabordio…e salgo un attimo in soffitta, a rovistare tra la muffa e la carta arricciata dall’umidità, mi vesto di stracci, mi sporco le ginocchia, le mani…nuoto e sfoglio, leggo e annaspo, un po’ affogo e un po’ respiro.
Una cosa che non dimentico è il presente.
Fosse l’ultimo pezzo di legno che galleggia, rimango attaccata a quello.
Perchè il valore del presente è pari all’amore che sento.
Il lato oscuro.
Lo ammetto, Vostro Onore. Sono colpevole.
Colpevole di scrivere ciò che mi passa per la testa.
Non mi chieda perchè, non mi chieda che significato ha.
Amo il surrealismo, non può che essere così.
Colpevole di vestire, nelle mie notti più buie, un mantello, dietro al quale celo il mio volto candido e sorridente, una maschera credibile ormai.
Voi, poveri illusi. Mi guardate negli occhi come se fossi un dolce angelo, dalle lentiggini appena accennate, con la poesia che scorre nelle vene.
Invece fingo.
Ebbene, sono bugiarda.
Mento.
Sono cattiva.
Manipolo le parole nascondendo ciò che veramente vorrei dire, in nome di scandali che non possono nascere, non possono. Non siete ancora pronti, voi, popolo di lettori ingenui e buonisti, così attenti a non passare mai oltre al confine della convenienza. Vi trastullate in questo limbo virtuale, qui tutto è lecito, anche la bugia nascosta, nessuno mai ne prenderà atto, nessuno vedrà i vosti occhi maligni.
Il cammino che ho scelto è quello di un percorso selettivo.
Non ci entrate tutti in questo percorso.
Non mi state tutti simpatici.
Non vi considero tutti interessanti, belli, coinvolgenti, strepitosi e amici.
Anzi.
Siete banali, noiosi.
Mi piacerebbe umiliarvi, usare le mie parole come un’arma contundente e distruggere il vostro dilagante ed inutile buonismo.
Sarebbe ciò che vi meritate. Una sana sfezata di cattiveria.
La Signora Ammazzatutti |
Me la rido. MELA-RIDO.
Immagino le vostre facce con la bocca aperta che leggono questo post aspettando il colpo di scena.
Ebbene, stavo scherzando.
Forse.
Voi avete un lato cattivo? Vi mordete mai la lingua per non dire cose sconvenienti? Credete nella sincerità? Io mi sono accorta a mie spese che il mondo, molto spesso, vive sotto un interessante strato di sonnolenza pacata dove nasconde tutto il bisogno di apparenza che può avere.
L’apparenza ti salva.
Non ti chiede di essere come sei realmente, ti chiede solo di essere così come vorrebbero tutti che tu fossi. Io sono una di quelle che ti prende a schiaffi con la sincerità, a volte anche aggressiva, tagliente quasi. Una di quelle che dentro la propria spontaneità ci mette anche un pizzico di ingenuità, quella vera, di chi parla senza veli, senza dietrologie e secondi fini. Ecco perchè sono sempre andata più daccordo con i ragazzi. Perchè non sono maligni.
E ora mi trovo a lavorare con le parole. Al telefono, via mail (su un blog…ah, ma quello non è un lavoro 🙂 ), durante le riunioni. A mostrare la mia faccia sorridente mentre dentro ho un vulcano in eruzione, a scrivere cose con paroline dolci e di convenienza mentre nei miei occhi c’è il fuoco, a rispondere al telefono con una grazia quasi inquietante mentre la mia faccia parla la lingua del diavolo, come i dischi dei Beatles al contrario.
A volte quando mi guardo allo specchio mi stranisco di come riesco a farcela, a mentire (che poi non è proprio mentire…è più una sorta di finzione…di convenienza, di attitudine alla vita sociale).
Perchè non è nella mia pelle quello di agire per ottenere.
Perchè, soprattutto, non è nei miei occhi.
Sono limpidi.
Voi non li vedete, potete non credermi.
A volte vorrei essere cattiva, si.
Ebbene, non ci riesco.
Sono una buona.
Il pensiero lineare.
L’eco dei pensieri lineari oggi scarseggia.
Mi fanno compagnia delle immagini, sotto forma di elenco, da stamattina. Si susseguono come diapositive, random e senza soluzione di continuità, davanti ai miei occhi che fissano questo pc per otto ore al dì. Che tutto sia la conseguenza di una settimana, la scorsa, in cui sono stata molto presa? Oppure forse di questo fine settimana entusiasmante, ricco, carico, pieno (di chiacchiere, di cibo, di conoscenze, di persone, di panorami, di tosse, di pioggia e sole)?
Chissà.
Ciliegie rosse, con la guancia gialla, nel cestino della mia bici.
Bicicletta rosa confetto.
Un ombrello al contrario, sul marciapiede.
Righe e quadretti, fantasie geometriche.
Piani e ripiani gustosi, dolci.
Sandali e pozzanghere scure.
Gonne blu, di velo, leggere come la brezza del mare.
Precipitazioni varie, crolli.
Contatto.
Fare la pace con tutti, poi litigare di nuovo.
Polemiche sterili e tante parole.
Sapori (dal sud).
Latte e derivati che non posso assaggiare.
Sogni di amiche senza senso.
Amori non andati a buon fine.
Pidocchi infestanti.
Aiuole di piante succulente, felici.
Ancora ciliegie, ancora mal di pancia.
Desideri vestiti di bianco, col velo.
Andare al nocciolo delle questioni.
Preoccupazioni.
Sviluppare strati necessari alla sopravvivenza.
Mondo cannibale.
Gnam, mi mangiano la mia coscia muscolosa.
Devo andare.
Rimane la sostanza.
I miei occhi nocciolini, il mio profumo di passaggio, il mio sospiro, il piccolo sacrificio mal voluto, la bocca storta, il suono di qualche distorsione, tu e i tuoi schiocchi sulla mia pelle, i piccoli lividi, il movimento coordinato del cuore con il battito di ciglia, la stanchezza, l’irrequietezza, l’ossessione di uno spauracchio.
Il sapore dolce di quello che
Era.
E’.
Sarà.
Foto geniale scattata da me. |
ALIENS#9
Cosa sei tu, dietro queste sillabe distratte?
Alfiere indeciso.
Regna il caos, immutato caos.
Sbiaditi concetti
Giochi di parole sovrapposte e mute.
Un discontinuo movimento di sospetti.
Chi sei tu, dietro questa fissa maschera?
Io ti contraggo, virus letale, ti leggo, ti bramo.
Tu sei COLLA.
Interprete di un rebus immobile e perpetuo.
Tu sei corroso.
Pilastro nella sabbia, consumi i tuoi granelli.
Come una clessidra.
Irregolare e profumata (come la buccia di un pompelmo rosa).
Tutto comincia da qui.
Giuseppe Sanmartino – Cristo velato (1753) |
Perchè anche se studi storia dell’arte per anni, non è che ti puoi ricordare tutto. Ti basta poi un accenno e qualcosa ti risveglia delle emozioni. Dopo aver vissuto l’arte in modo accademico adesso la vivo in modo emozionale…o forse sono sempre andate di pari passo, solo che adesso è molto più forte ciò che sento piuttosto che ciò che so, quando guardo un’opera.
La mia sensibilità mi fa esplorare ogni volta delle curve mai viste, di quel velo sul volto. Ed è come se lo toccassi, se lo sentissi su di me. Lo vedete quasi impalpabile, leggero, ma è marmo.
Pesante, bianco, puro e duro.
Che abilità nel tradurlo in leggerezza, nel renderlo come un sottile strato di cipria, da spazzolare via con un soffio di vento, come faccio ogni mattina sulle mie guance, colorandomi di rosa chiaro, per non essere pallida e vulnerabile.
Tutto comincia dove decido che debba cominciare.
E oggi si comincia dal ricordo di un velo. Quello che copre la mia testa di nero, quello che mi comprime così forte da non farmi ricordare come si prende fiato, immersi nel nulla.
Ed è così profondo, così scuro, infame, bastardo, sleale, che combattere non serve, se non a farti affogare ancora di più. Anche se mi impongo di stare a galla, annaspo.
Quel velo è la P A U R A. Con la P maiuscola.
Ti spara alla schiena, prima che tu finisca di camminare verso il punto accordato, non si fa guardare negli occhi.
Ti spegne tutti i pulsanti, i ricettori coscienti dell’amore.
Tutti abbiamo vissuto qualcosa che ci ha attaccato addosso delle macchie nere di pece, le mie le conosco bene. So quanto sono grandi, profonde e vorticose, ma quando decidono di staccare la mia spina con i sensi mi lasciano inerme. Ho paura e basta, in quel momento. Che duri un minuto o un pomeriggio, non riesco a vedere, è orribile. Rimango ferma, immobile, in uno spazio in cui non c’è niente.
Il velo mi soffoca, il buio mi invade.
Poi passa. Non so come sia possibile, passa. Ti svegli la mattina e l’unica cosa in cui affoghi sono gli occhi azzurri della persona che ami. E nel muffin al cocco fatto la sera prima.
E hai bisogno di riempire le tue ore di quella frivolezza solare che scolpisce ogni giorno la tua vita, senza malignità, senza nascondigli, senza angoscie e impervi e tortuosi percorsi.
Tutto comincia dove io decido che debba cominciare.
Comincia che il buongiorno che scrivi ad un’amica diventa il tuo post.
Il post composto come una torta a strati.
E quindi inizia dall’arte e finisce con un sorriso.
E io con lei sono un soffione. Abbiamo due cervelli che se ci soffi sopra sfuggono alla scatola cranica (dice Sandra). Sempre più poveri di materia grigia, ogni giorno (dico io). Poco cervello e scappaticcio (dice lei).
Perchè io ho un’amica che dice che siamo (io e lei) fiorite come due zucchine.
E grulle come i grilli alle Cascine.
E io aggiungo che siamo fave come le fave.
Genuine, vive, pur sempre GALLINE.
“La mia amica mi dice di sorridere, di essere felice oggi perchè oggi conta e non domani.
La mia amica mi dice di essere positiva e piena di amore perchè l’amore chiama l’amore e noi (io e lei) non sappiamo vivere senza l’Ammmmmore, quello con la A MAIUSCOLA e con tutte le mmmmm del mondo.
La mia amica mi dice che mi vuole bene.”
La mia amica mi dice che mi vuole bene.”
Grazie Sandra. Io ti dico che sei speciale.
Oggi sono un cerchio che si chiude.
Ne decido l’inizio e la fine.
Senza che mi giri la testa.
(Siete confusi? Lo faccio per confondere la paura. Sia mai che volesse tornare.)
OLTRE. Scivolando sui pensieri.
Non credo di averlo mai fatto.
Cosa?
Di pubblicare con quasi due mesi di ritardo dei pensieri di un pomeriggio caldo, nei primissimi giorni di aprile, quando l’illusione della primavera era reale e mi svegliavo con un misto di insoddisfazione e voglia di andare oltre.
Ma non conoscevo questo oltre, lo temevo di certo. Cercavo di annegarlo nella marmellata della colazione, ma lui tornava.
E, alla fine, c’è stato, ed è stato un oltre davvero OLTRE. Mentre sono qui che vi guardo dall’OLTRE, leggo con voi…
Sette Aprile Duemilatredici.
Sulle rive dell’Arno.
Sono come il polline. Fine, giallo, gustoso.
Sono come i raggi caldi di questa primavera, finalmente.
Sono questo aprile.
Sono questo ragnetto. Pochi millimetri di perfezione. Giallo su nero, come fosse polline.
Sono queste spighe verdi, immaturo frutto della natura.
Sono questo foglio di carta, questi pensieri impuri e gravidi, questo monsone di tempeste mai viste.
Sono questa irruenza, questa voglia di scoprire, di cucirmi in faccia un amore mai visto, questi vestiti così aderenti da non riuscire più a toglierli.
Sono queste domande a cui sottopongo la mia anima, senza tregua.
Sono al mediocrità che non conosco. Perchè la scanso ma non la posso lasciare del tutto, mio marginale contatto con la realtà.
Sono questo foglio, che voglio fare a brandelli, piccole parole, piccoli pezzi di carta, verba volant, per alleggerire un mondo costruito solo per la mia personale sopravvivenza.
Sono questo traffico costante, il profilo verde delle colline di Firenze, un tempo disabitate.
Sono questo sterile punto di vista, il cui valore è un significato solo per me.
Sono perfetta come le guglie di quella basilica, come il merlo di quella torre, il bastione di questa fortezza.
Sono troppo in una vita che il troppo non lo può tollerare. E nemmeno controllare.
Sono quelle piccole anatre che procedono sul fiume scuro, incuranti di ciò che avviene attorno.
Sono la loro scia, il flusso sottostante creato, che lambisce con lentezza la costa, con il suo ritmo parallelo.
Sono quella cosa che dovrà avvenire, spietata e chiara.
Sono quel segreto che ancora non conosco, quell’amara domenica mal vissuta sotto un vento che ricorda l’inverno e un sole che chiama l’estate.
Sono le note di queste ripetute canzoni nelle mie orecchie distanti dal reale.
Sono la mia voglia di scrivere senza mai una fine, come se non conoscessi che righe e inchiostro nero, sbaffato dalla fretta di dire qualcosa.
Sono una mendicante di poesie già scritte, che non so come scrivere. Non conosco il carattere, ancora geroglifico, senza traduzione.
E allora tu fammi egizia, da profilo intatto per secoli, fammi scultura, mummia del passato così che io legga sulla pietra la mia vita già vissuta e stringi le bende. Stringi per non far passare il sangue, freddo afflusso di sistemi nervosi troppo attivi per lasciarmi riposare in pace.
Sono questo sarcofago.
Sono questa maschera di cera.
Sono la combinazione sconosciuta.
Sono un simbolo segreto delle Terre di Mezzo.
Sono una regina. Tu lasciati ammaliare dal canto delle sirene e vattene, lasciami, abbandona questa attesa che non sopporta più le attese sconosciute dell’amore.
Meekyoung Shin – Vasi di Sapone (foto by Berry – Saatchi Gallery, London, agosto 2012) |
Perchè questa foto? Perchè era agosto, caldo anche a Londra. I miei pensieri erano più cupi di adesso e questo museo fu una boccata d’aria. Questi vasi sono fatti di sapone, da non credere, vero? Ora i miei cupi pensieri sono scivolati via sulle curve morbide di quelle forme, sono rimasti quelli dai colori accesi.
Non c’è più nessuna attesa.
ALIENS#8
Ciminiera di nebulose.
Una cosmica e avventata soluzione, per coprire l’infinito.
E’ l’assenza che lascia il solco indelebile
Quello del passaggio
Quella che non indugia
Esiste solo nel vortice scuro e fitto.
Istinto, fulmineo dolore.
Sei Schiuma.
Sei il mio dimenticato calore.
Il mio mondo di pozzanghere e ciliegie.
Io mi chiamo Andrea, vivo in un piccolo paese, in un luogo di cui non saprei raccontarvi il nome, la storia, lo spazio, ma solo il presente.
Ho i capelli rossi. Le lentiggini. Gli occhi verdi. Questo è quello che so ogni mattina quando mi guardo allo specchio, poi lo dimentico appena chiudo gli occhi. La mia memoria non sopporta di ricordare, non so nemmeno perchè ma è così.
Mi ricordo come andare in bicicletta, come camminare in equilibrio sulle precarie giornate dove si respira un’aria sporca, come pettinarmi i ciuffi ribelli, gli occhi delle mie sorelle e l’odore della pelle di chi amo.
Mi ricordo come scrivere, mettere una parola dopo l’altra per comporre una frase compiuta, magari senza molto senso per tutti voi, ma che compone una lieve armonia per le mie corde.
Mi chiamo Andrea e in questo paese tutti usano la bicicletta, per andare a lavoro, per uscire con gli amici, per accompagnare i figli a scuola. Il sorriso è il saluto usuale. Mentre le vite degli sconosciuti si sfiorano, lasciando una scia di vento a ricordarne il passaggio, io guardo le strane pozzanghere immobili, trasparenti oblò che mostrano, ogni giorno diversamente, il mondo sottostante.
Vedo libellule leggere, che illuminano i fiori dove si poggiano, facendo cadere la porporina dalle loro ali, come fosse riflesso dorato del mondo superiore.
Vedo questi fiori che ascoltano la primavera, non solo stagione cadenzata dal passaggio, dal tempo, dal nome dei mesi, ma stagione di colori, senza sosta, di calore che arriva forte, diretto dal centro della terra.
Pozzanghere strane, ogni giorno cambiano la loro posizione, in queste notti fresche, di pioggia intensa e insistente, che mi portano via la memoria.
Alcune non sono trasparenti ma macchiate d’olio di quelle poche macchine che ci inquinano l’aria. Viene a galla e forma un piccolo cerchio, l’acqua si trasforma in specchio, vedo la molletta a forma di ciliegia che mi tiene i capelli stamani.
Mi chiamo Andrea e sono una ragazza. Rinascessi altre mille volte, in altre mille vite, non vorrei essere diversa da come sono, non vorrei essere uomo, non vorrei occupare i miei pensieri diversamente da come sono adesso. Superficiali e pesanti. Dubbi e incertezze costanti. Probabilità e imprevisti, come se il mio paese fosse un Monopoli da percorrere tappa dopo tappa. Ogni mattina torno all’inizio. Non ricordo quante volte sono riuscita a passare dal Parco della Vittoria, diciamo che i vicoli e le strettoie mi fanno sentire più a mio agio, saranno le prospettive infinite, l’odore di casa, l’erbetta che cresce sui tetti e il sole che si infila in ogni feritoia, i bambini che giocano nei cortili, che non vedo ma sento, il soffritto nelle padelle, le carezze sul volto amato.
Il mio piccolo paese mi veste, mi completa, mi soddisfa. Anche il colore marrone del fiume che lo percorre, arrabbiato e cupo per le incessanti piogge primaverili, lo sento mio.
Andrea. Questo è il mio nome. Lo ripeto come un mantra per non scordarlo, almeno questo no. Tra le lenzuola stamattina mi sono innamorata, c’era l’odore della pelle di chi amo. Mi addormento mano nella mano con lui per incollare una forma sull’altra, per sentire la sagoma e imparare a riconoscerla anche quando mi sveglio, spaesata, e cerco un riferimento, uno, che i miei occhi non abbiano gettato altrove.
E allora ho imparato l’odore della sua pelle, che annuso, l’odore che mi arriva fino al cervello e colpisce ogni percettore sveglio.
BOOOOOM!
Quindi ricordo!
Le lenzuola, il cuscino, il ronfare della mia gatta. Le pieghe della notte, le ombre del mattino, le sottili porporine luminose, lasciate dalle libellule anche qui, nel mio mondo, nella nostra stanza. Perchè forse anche noi, io e te, amore mio, viviamo al confine. Dormiamo tra le fate e lavoriamo sopra le pozzanghere.
Un cuscino di ciliegie, rosso e vivo, come il nostro amore, assorbe i nostri sogni.
Sono ciliegie gustose. Da lì comprendo il significato del tuo sentimento e la forza del mio.
Quando scelgo in quale dei due mondi camminare non ho più bisogno di ricordare, ma di sentire la mia vita prendere forma, le mie mani la modellano, vene, muscoli, sguardi, pulsazioni.
Non più ieri, solo modelli a grandezza naturale di un oggi che posso toccare.
Vladimir Kush |
Blogger…i tuoi capricci non possono fermarmi, non oggi!
Non quando devo raccontare di questo intero mondo creato da un bellissimo fine settimana.
E’ un mondo fatto di chiacchiere, sorrisi, abbracci, tenerezza e complicità con una persona (e la sua dolce figlia) meravigliosa. Ma non è che proprio sia facile trovare descrizioni, aggettivi per rimandare la sensazione avuta conoscendo Sandra. E’ per lei che ho scritto questa storia. Per tutto questo mondo, queste catene invisibili di amicizie virtuali che esistono veramente, ogni commento un po’ di nettare, essenziale per la vita di questi blog, così pieni di tutte noi (ps: Monica…te lo dico…qui manchi! La tua assenza mi fa anche scrivere racconti…intervieni, presto!!!)
Per lei e per i miei amici, che mi regalano sempre la gioia della condivisione, dell’amore quello che non chiede.
Per lei, loro e le mie sorelle, le piccole e fragili anime che tengo ogni minuto tra le mie braccia, almeno con il pensiero, per le quali vorrei alleviare ogni dolore e curare ogni sofferenza o fatica ma, visto che non lo posso fare, mi limito a stargli accanto cercando di accompagnarle nel modo migliore che posso.
Per lei, loro, le mie sorelle e per chi mette le ciliegie su quel cuscino con me, promettendomi pazienza e fedeltà, dando significato ad ogni per sempre che pronuncia. Che se poi lo andate ad ascoltare QUI sono contenta (lui = chitarra).
Grazie ?
Testa e Gambe.
“Chi unn’ha testa, abbia gambe”
E ve lo dico in fiorentino.
Io corro. Da sempre. Corro in tutto. Nei pensieri, nel lavoro, nell’elaborazione delle cose. Corro ma non sono frettolosa, ho solo un modo di risolvere le mie cose, che siano più o meno pratiche, molto veloce. Come diceva la dolce Sara sulla “tiepidezza” dell’animo, di certo non posso definirmi tale. Sono estrema, esagitata (ben diverso da esagerata), sempre accorta, precisa, attenta.
Trovo rilassamento nel fare cose che normalmente stancano, stressano, annoiano, affaticano. Quando voglio veramente sentirmi “stanca”…scrivo. Scrivo fino a che non finisco le energie utili per fare qualsiasi altra cosa. Ma è una spossatezza con la quale amo convivere, perchè è così integrata in me che non posso, anche volendo, osteggiarla.
Ieri avevo voglia di correre.
La testa, che in questo periodo non mi accompagna frequentemente, dato gli ultimi lieti eventi di cui già siete a conoscenza, era già in vacanza dalla mattina, quando dopo 300 metri mi sono accorta di pedalare sulla strada (invasa dal traffico) invece che sulla pista ciclabile di fianco.
Le gambe, quindi, le dovevo allenare. Una testa così leggera va tenuta saldamente a terra e con la dovuta cognizione.
OttoKm. Otto meravigliosi chilometri.
Sudore, salita, respiro cadenzato.
Testa e Gambe sincronizzate, ma pur sempre in due mondi diversi.
E poi Firenze, davanti ai miei occhi. I merli di Palazzo Vecchio, con la sua torre. La lanterna della cupola del Brunelleschi, così vicina che la posso anche toccare. Il campanile di Santa Croce. Più in basso i tetti, le strettoie, i passaggi segreti, i giardini, le piazze della mia città.
L’arte di correre, l’arte mentre corro. Forse anche per questo mi rilasso, perchè correre in zona piazzale Michelangelo è come dipingere un quadro, ogni volta diverso, a seconda del minuto in cui lo percorri, a seconda del sole, di come batte, di come riflette su San Miniato al Monte di cui percepisci la potenza silenziosa. Ogni passo fatto le mie gambe si caricano di tutto questo. Della leggerezza dei pensieri, della frivolezza della primavera, dei rami che intralciano il mio percorso, della luce e della forza di questa atmosfera così importante, così mia.
E anche se gli occhi si riempiono di moscerini, anche se torno a casa esausta, con le guance a fuoco e i muscoli tirati mi sento B E N E e mi sento di riempire in ogni sua curva, in ogni suo angolo questa parola, così breve ma così bramata.
Intensa, ecco come mi sento. Intensa e densa.
Dire e fare, finchè morte non li separi. Ogni parola accompagnata da un gesto, anzi due, per non lasciare sola la parola successiva.
In questo B E N E, che scandisco pronunciando ogni lettera come fosse un piccolo menhir, c’è amore. C’è voglia, passione. C’è un dolce al cioccolato preparato per un sorriso, c’è una focaccia impastata dopo gli otto chilometri. C’è la consapevolezza di mille frasi scontate, ma nuove di fronte ai miei occhi:
Non c’è cosa migliore di vivere senza avere fretta.
(Non credo ai miei occhi. L’ho scritto davvero? Sono io? Ebbene si…si, sono io, non allarmatevi, non mi hanno messo un coltello alla gola, lo giuro!)
Perchè anche se corro, in tante cose e davanti agli occhi di tanti, so bene cosa sto facendo.
Perchè anche se corro fisicamente sento la necessità di far si che le giornate si srotolino con il loro ritmo, di dover vivere con il dovuto rispetto dei tempi, di accarezzare ogni istante che passa, di sopportare le attese. Non ho fretta che arrivi l’alba del domani per guardarmi allo specchio e capire se i miei occhi hanno dimenticato un frammento di dolore, per sottolineare che anche questa giornata per fortuna arriverà alla fine. Voglio guardarmi ogni mattina e capire che i miei occhi ricordano questo ieri così recente, che quasi mi sfiora, ma che hanno guadagnato e non perso, che sono fortunata, ma che non ho fretta, nel respirare il futuro (vedi M4ry, le nostre sintonie…). Ho determinazione, ho me stessa, ho questo oggi da vivere, da scrivere con le mie mani, da decorare con le tegole dei tetti antichi di Firenze, da contemplare e accogliere.
E mi piace da morire, questo oggi.
Anche se probabilmente pioverà, anche se tornerò a casa a mezzanotte, anche se il tempo non mi basta mai, anche se ho le gambe stanche e la testa ancora dispersa.
San Miniato al Monte di notte – Maurizio Picci |
Ps: non siete mai stati a San Miniato al Monte? Andateci. E’ uno dei luoghi più incantevoli di Firenze, la scalinata per arrivare è una fatica sopportabile, una volta lassù.