LA LINEA BIANCA

standard 15 luglio 2013 83 responses

Ogni mattina cammino lungo una linea bianca, sul marciapiede. C’è lei, io e poi mio babbo. Lui mi porta a scuola, che poi sarebbe l’asilo, ma a me piace tanto chiamarla scuola. Ho anche imparato a scriverla, quella parola, da quanto mi piace.

Mio babbo è basso, con una barba scura, giovane e tanto buono. Io lo faccio correre dietro di me, giochiamo a chiapparello ogni volta, su quel marciapiede grande.

Ci sono un sacco di rami che prendo al volo, mentre corro quasi ad occhi chiusi, strappo le foglie in piccoli frammenti, alcuni si nascondono tra le mie mani e li conservo, nelle tasche del gilet. Una volta a scuola le ricalco con la matita sul foglio, voglio ricordarmi della corsa fatta con papà.

A volte quando corro sento il sapore del latte, oppure dei biscotti al miele. Sento lo zainetto pieno di macchinine che si agita dietro la mia schiena, il rumore delle biciclette che arrivano alle mie spalle e sfrecciano oltre la linea bianca, quel confine che devo tenere bene a mente di non sorpassare, mai. Babbo mi rammenta sempre, prima di uscire di casa, che ci sono delle cose che posso fare anche se sono piccolo, mentre per altre è necessario aspettare. Come andare in bicicletta senza le ruotine…quanto mi piacerebbe…ma è ancora presto. Come mangiare i biscotti caldi, appena sfornati dalla nonna: ditemi come si fa ad aspettare, senza bruciarsi la punta della lingua, i polpastrelli e farsi appannare gli occhiali dal calore del primo morso, con il vapore che mi investe la faccia. Il calore della fragranza. Che buono. Come andare con i miei amici in campeggio o capire come funziona che ci si innamora, ad un certo punto, di una bambina.

Ma se il babbo dice di aspettare io aspetto. 
Mi dice anche che la pazienza è un grande pregio, che mi servirà nella vita. Ma la mattina quando mi viene voglia di correre, mentre papà si stropiccia gli occhi per il sonno…non ce la faccio a trattenermi, corro! In fondo sono un bambino, anche se sono capace a scrivere scuola non vuol dire che sono grande. Perché quella linea che non devo sorpassare, mentre batto i miei piedi sull’asfalto e strappo le foglie con le mani, è un limite che non conosco. Mi attira come una calamita, ma ho anche paura di lei…meglio starne alla larga, così mio babbo, con il tempo, mi insegnerà come camminare da solo anche dall’altra parte del mondo, magari tra le foreste dell’Amazzonia, con quegli alberi così alti che il parco della mia scuola in confronto sembrerà un giardinetto.

Insomma, tutti i giorni faccio la solita strada ma non mi annoio. Imparo tante cose e ricordo tante cose che posso raccontare alla mamma, quando torno a casa il pomeriggio. Ci sono certe volte poi che sono così felice, conservo le piccole foglie strappate fino a quando non torno a casa, per farci una collana. 
Quando sarò grande non voglio dimenticarmi la spensieratezza di questi bei giorni, quando correrò non per divertirmi ma solo per la fretta, allora vorrò toccare questa ghirlanda che ormai sarà secca e fragile e sorridere con i denti grandi e, anche dovesse cadere qualche angolino, io saprò la storia di ogni pezzetto, raccolto lungo la linea di confine, tra la realtà e la fantasia, tra il gioco e il dovere, tra la continuità dell’amore e la frammentarietà della vita. 

E quindi sorriderò, come faccio ora, che ne disegno la sagoma e sento ancora l’odore di clorofilla.
Gustav Klimt – Le tre età della donna (1905)

Il lato oscuro.

standard 13 giugno 2013 75 responses
Lo ammetto, Vostro Onore. Sono colpevole.
Colpevole di scrivere ciò che mi passa per la testa. 
Non mi chieda perchè, non mi chieda che significato ha. 
Amo il surrealismo, non può che essere così. 
Colpevole di vestire, nelle mie notti più buie, un mantello, dietro al quale celo il mio volto candido e sorridente, una maschera credibile ormai.
Voi, poveri illusi. Mi guardate negli occhi come se fossi un dolce angelo, dalle lentiggini appena accennate, con la poesia che scorre nelle vene. 
Invece fingo.
Ebbene, sono bugiarda.
Mento.
Sono cattiva.
Manipolo le parole nascondendo ciò che veramente vorrei dire, in nome di scandali che non possono nascere, non possono. Non siete ancora pronti, voi, popolo di lettori ingenui e buonisti, così attenti a non passare mai oltre al confine della convenienza. Vi trastullate in questo limbo virtuale, qui tutto è lecito, anche la bugia nascosta, nessuno mai ne prenderà atto, nessuno vedrà i vosti occhi maligni.
Il cammino che ho scelto è quello di un percorso selettivo.
Non ci entrate tutti in questo percorso.
Non mi state tutti simpatici.
Non vi considero tutti interessanti, belli, coinvolgenti, strepitosi e amici.
Anzi.
Siete banali, noiosi. 
Mi piacerebbe umiliarvi, usare le mie parole come un’arma contundente e distruggere il vostro dilagante ed inutile buonismo. 
Sarebbe ciò che vi meritate. Una sana sfezata di cattiveria.

La Signora Ammazzatutti
Me la rido. MELA-RIDO.
Immagino le vostre facce con la bocca aperta che leggono questo post aspettando il colpo di scena. 
Ebbene, stavo scherzando.
Forse.
Voi avete un lato cattivo? Vi mordete mai la lingua per non dire cose sconvenienti? Credete nella sincerità? Io mi sono accorta a mie spese che il mondo, molto spesso, vive sotto un interessante strato di sonnolenza pacata dove nasconde tutto il bisogno di apparenza che può avere. 
L’apparenza ti salva. 
Non ti chiede di essere come sei realmente, ti chiede solo di essere così come vorrebbero tutti che tu fossi. Io sono una di quelle che ti prende a schiaffi con la sincerità, a volte anche aggressiva, tagliente quasi. Una di quelle che dentro la propria spontaneità ci mette anche un pizzico di ingenuità, quella vera, di chi parla senza veli, senza dietrologie e secondi fini. Ecco perchè sono sempre andata più daccordo con i ragazzi. Perchè non sono maligni. 
E ora mi trovo a lavorare con le parole. Al telefono, via mail (su un blog…ah, ma quello non è un lavoro 🙂 ), durante le riunioni. A mostrare la mia faccia sorridente mentre dentro ho un vulcano in eruzione, a scrivere cose con paroline dolci e di convenienza mentre nei miei occhi c’è il fuoco, a rispondere al telefono con una grazia quasi inquietante mentre la mia faccia parla la lingua del diavolo, come i dischi dei Beatles al contrario.
A volte quando mi guardo allo specchio mi stranisco di come riesco a farcela, a mentire (che poi non è proprio mentire…è più una sorta di finzione…di convenienza, di attitudine alla vita sociale).
Perchè non è nella mia pelle quello di agire per ottenere.
Perchè, soprattutto, non è nei miei occhi.
Sono limpidi.

Voi non li vedete, potete non credermi.
A volte vorrei essere cattiva, si.
Ebbene, non ci riesco.
Sono una buona.

Il mio mondo di pozzanghere e ciliegie.

standard 20 maggio 2013 59 responses
Io mi chiamo Andrea, vivo in un piccolo paese, in un luogo di cui non saprei raccontarvi il nome, la storia, lo spazio, ma solo il presente.
Ho i capelli rossi. Le lentiggini. Gli occhi verdi. Questo è quello che so ogni mattina quando mi guardo allo specchio, poi lo dimentico appena chiudo gli occhi. La mia memoria non sopporta di ricordare, non so nemmeno perchè ma è così.
Mi ricordo come andare in bicicletta, come camminare in equilibrio sulle precarie giornate dove si respira un’aria sporca, come pettinarmi i ciuffi ribelli, gli occhi delle mie sorelle e l’odore della pelle di chi amo.
Mi ricordo come scrivere, mettere una parola dopo l’altra per comporre una frase compiuta, magari senza molto senso per tutti voi, ma che compone una lieve armonia per le mie corde.

Mi chiamo Andrea e in questo paese tutti usano la bicicletta, per andare a lavoro, per uscire con gli amici, per accompagnare i figli a scuola. Il sorriso è il saluto usuale. Mentre le vite degli sconosciuti si sfiorano, lasciando una scia di vento a ricordarne il passaggio, io guardo le strane pozzanghere immobili, trasparenti oblò che mostrano, ogni giorno diversamente, il mondo sottostante.
Vedo libellule leggere, che illuminano i fiori dove si poggiano, facendo cadere la porporina dalle loro ali, come fosse riflesso dorato del mondo superiore.
Vedo questi fiori che ascoltano la primavera, non solo stagione cadenzata dal passaggio, dal tempo, dal nome dei mesi, ma stagione di colori, senza sosta, di calore che arriva forte, diretto dal centro della terra.
Pozzanghere strane, ogni giorno cambiano la loro posizione, in queste notti fresche, di pioggia intensa e insistente, che mi portano via la memoria.
Alcune non sono trasparenti ma macchiate d’olio di quelle poche macchine che ci inquinano l’aria. Viene a galla e forma un piccolo cerchio, l’acqua si trasforma in specchio, vedo la molletta a forma di ciliegia che mi tiene i capelli stamani.

Mi chiamo Andrea e sono una ragazza. Rinascessi altre mille volte, in altre mille vite, non vorrei essere diversa da come sono, non vorrei essere uomo, non vorrei occupare i miei pensieri diversamente da come sono adesso. Superficiali e pesanti. Dubbi e incertezze costanti. Probabilità e imprevisti, come se il mio paese  fosse un Monopoli da percorrere tappa dopo tappa. Ogni mattina torno all’inizio. Non ricordo quante volte sono riuscita a passare dal Parco della Vittoria, diciamo che i vicoli e le strettoie mi fanno sentire più a mio agio, saranno le prospettive infinite, l’odore di casa, l’erbetta che cresce sui tetti e il sole che si infila in ogni feritoia, i bambini che giocano nei cortili, che non vedo ma sento, il soffritto nelle padelle, le carezze sul volto amato. 
Il mio piccolo paese mi veste, mi completa, mi soddisfa. Anche il colore marrone del fiume che lo percorre, arrabbiato e cupo per le incessanti piogge primaverili, lo sento mio. 

Andrea. Questo è il mio nome. Lo ripeto come un mantra per non scordarlo, almeno questo no. Tra le lenzuola stamattina mi sono innamorata, c’era l’odore della pelle di chi amo. Mi addormento mano nella mano con lui per incollare una forma sull’altra, per sentire la sagoma e imparare a riconoscerla anche quando mi sveglio, spaesata, e cerco un riferimento, uno, che i miei occhi non abbiano gettato altrove.
E allora ho imparato l’odore della sua pelle, che annuso, l’odore che mi arriva fino al cervello e colpisce ogni percettore sveglio. 
BOOOOOM! 
Quindi ricordo! 
Le lenzuola, il cuscino, il ronfare della mia gatta. Le pieghe della notte, le ombre del mattino, le sottili porporine luminose, lasciate dalle libellule anche qui, nel mio mondo, nella nostra stanza. Perchè forse anche noi, io e te, amore mio, viviamo al confine. Dormiamo tra le fate e lavoriamo sopra le pozzanghere.

Un cuscino di ciliegie, rosso e vivo, come il nostro amore, assorbe i nostri sogni.
Sono ciliegie gustose. Da lì comprendo il significato del tuo sentimento e la forza del mio.

Quando scelgo in quale dei due mondi camminare non ho più bisogno di ricordare, ma di sentire la mia vita prendere forma, le mie mani la modellano, vene, muscoli, sguardi, pulsazioni.
Non più ieri, solo modelli a grandezza naturale di un oggi che posso toccare.

Vladimir Kush
Blogger…i tuoi capricci non possono fermarmi, non oggi!
Non quando devo raccontare di questo intero mondo creato da un bellissimo fine settimana. 
E’ un mondo fatto di chiacchiere, sorrisi, abbracci, tenerezza e complicità con una persona (e la sua dolce figlia) meravigliosa. Ma non è che proprio sia facile trovare descrizioni, aggettivi per rimandare la sensazione avuta conoscendo Sandra. E’ per lei che ho scritto questa storia. Per tutto questo mondo, queste catene invisibili di amicizie virtuali che esistono veramente, ogni commento un po’ di nettare, essenziale per la vita di questi blog, così pieni di tutte noi (ps: Monica…te lo dico…qui manchi! La tua assenza mi fa anche scrivere racconti…intervieni, presto!!!)
Per lei e per i miei amici, che mi regalano sempre la gioia della condivisione, dell’amore quello che non chiede.
Per lei, loro e le mie sorelle, le piccole e fragili anime che tengo ogni minuto tra le mie braccia, almeno con il pensiero, per le quali vorrei alleviare ogni dolore e curare ogni sofferenza o fatica ma, visto che non lo posso fare, mi limito a stargli accanto cercando di accompagnarle nel modo migliore che posso.
Per lei, loro, le mie sorelle e per chi mette le ciliegie su quel cuscino con me, promettendomi pazienza e fedeltà, dando significato ad ogni per sempre che pronuncia. Che se poi lo andate ad ascoltare QUI sono contenta (lui = chitarra).

Grazie ?